Tra la Skanderband e i Radiodervish. Intervista con Michele Lobaccaro
Alla fine del Quattrocento, in seguito alla morte di Giorgio Castriota Skanderberg ed alla progressiva conquista dell’Albania da parte dei turchi-ottomani, prese il via una lunga fase migratoria verso il Sud Italia, dove si insediarono le prime comunità arbëreshë che, provenienti dalla Morea e dalla Ciamuria, portarono con sé le tradizioni, la lingua, la musica della loro terra, unitamente alla religione ortodossa. Fino al XVII si assistette ad una storia di integrazione e convivenza tra le comunità albanesi e quelle italiane, che riprese a partire dagli anni Novanta con la seconda ondata migratoria, seguita alla fine del regime comunista, dando vita a nuove forme di incroci culturali con protagonisti artisti italiani, ed in particolare pugliesi, e musicisti albanesi. A questo sorprendente incontro tra culture differenti è dedicato il progetto Skanderband, orchestra-laboratorio nata nel 1998 dall’idea di Michele Lobaccaro, fondatore e polistrumentista dei Radiodervish, di esplorare gli incroci culturali tra le due sponde dell’Adriatico. Musicisti albanesi, arbëreshë e italiani si sono incontrati per dar vita ad un ideale viaggio che unisce Oriente ed Occidente partendo dalle radici della tradizione musicale del Sud Italia, passando per quella delle comunità arbëreshë fino ad approdare prima nei Balcani e poi in Turchia.
Nell’arco di quasi diciotto anni di attività questo collettivo di musicisti ha dato vita ad un rigoroso percorso di ricerche sul campo tra Italia ed Albania, raccogliendo un ampio repertorio di brani tradizionali, a cui si aggiungono composizioni originali, il tutto riletto con la partecipazione di strumentisti custodi dell’antica tradizione arbëreshë, ancora viva e dinamica a San Marzano (Ta), Piana degli Albanesi (Pa) e nei diversi altri centri Arbereshe diffusi nelle regioni del Meridione d’Italia. Il risultato di questo intenso lavoro compiuto dalla Skanderband è il disco omonimo della cui gestazione e genesi ci racconta Michele Lobaccaro, senza dimenticare un focus su “Cafè Jerusalem”, l’ultimo album in studio dei Radiodervish.
Come nasce l’esperienza di Skanderband?
Skanderband nasce da un laboratorio che a sua volta prende forma dalla curiosità e dall’innamoramento per la musica albanese. Quando nel 1991 crollò il regime comunista, in Albania si ebbe una vera e propria apertura dei confini di questa nazione, ed in particolare in Puglia assistemmo all’arrivo della Vlora, questa grande nave carica di profughi albanesi che attraccò al porto di Bari. Da quel momento i contatti con l’Albania furono più intensi e già nei primi anni Novanta ci fu la possibilità di fare le prime esperienze di viaggio in quel paese fino ad allora sostanzialmente sconosciuto. Quello che si sapeva ci arrivava da Radio Tirana che captavamo sulle onde medie e dove ascoltavamo queste trasmissioni molto interessanti ed affascinanti per chi amava la world music. Una volta arrivati in Albania scoprimmo che era una terra ricchissima dal punto di vista culturale, pur essendo relativamente piccola come estensione del territorio e anche come popolazione. E’ in realtà un paese molto variegato e tra nord, sud e centro ci sono grandi differenze musicali con stili molto diversi e tutti molti interessanti.
Nel corso di questi tuoi viaggi in Albania hai avuto modo di effettuare anche ricerche sul campo?
Inizialmente quello che abbiamo fatto è stato recuperare quanti più documenti e materiale possibile dall’Albania, quindi dischi, cd, cassette. Quando sono rientrato in Italia, sulla base di questo interesse, ho avuto modo di conoscere anche musicisti albanesi che erano venuti da noi ed avevano anche avuto modo di suonare, e così c’è stato uno scambio più approfondito da cui sono nati poi anche viaggi fatti insieme a loro proprio in Albania. A partire dal 1998 abbiamo messo su diverse formazioni che hanno avuto come obiettivo quello di esplorare la musica albanese e più di recente questa esplorazione si è allargata alla musica Arbëreshë, quella che avevano portato in Italia coloro che erano emigrati cinquecento anni fa, creando poi diverse comunità. Ci sono diversi paesi arbëreshë in molte regioni del Sud Italia come Puglia, Molise, Calabria e Sicilia dove hanno conservato la lingua, le tradizioni, modi musicali e anche l’impronta religiosa bizantina. Abbiamo dato vita, così a prima questo laboratorio e successivamente al disco per raccontare una storia di emigrazione che va da cinquecento anni fa, fino all’ultima ondata migratoria dagli anni Novanta al Duemila. Il racconto di fondo è interessante perché chi è venuto cinquecento anni fa, fuggendo dalla dominazione ottomana, ha portato un certo tipo di musica, chi invece è venuto negli anni più recenti ha avuto modo di assorbire quella cultura e di arricchire ancor di più il patrimonio culturale albanese. Si è avuta la curiosa situazione con brani che che appartengono a tutte due le sponde dell’Adriatico ma sono suonati in modo differente, nello stile del Sud Italia e in quello balcanico dell’Albania. La musica del Meridione d’Italia ha subito l’influenza arbëreshë e viceversa, dando vita ad un laboratorio lungo cinque secoli di integrazione culturale ed oggi, per quello che accade con i grandi fluissi migratori, diventa un punto di vista importante da studiare.
Come hai scelto i musicisti che hanno preso parte al disco?
Devo dire che il nostro non è stato l’unico progetto multiculturale in questo senso, perché in Puglia se ne sono creati anche altri, essendosi diffuso il grande amore per la tradizione albanese tra la fine degli anni Novanta e il Duemila.
Ci siamo ritrovati a lavorare al disco proprio quei musicisti che avevano passione per questo progetto e che provengono da diverse esperienze musicali in gran parte dalla world music. Partendo dalle voci si può dire che questo sia un disco tutto al femminile perché c’è innanzitutto Eleonora Bordonaro che è siciliana ma vive a Roma ed è attiva in diversi progetti musicali, ed è una appassionata ricercatrice dell’area arbëreshë della Sicilia. Lei collabora anche con Ambrogio Sparagna, il quale ci ha donato “Kendime”, brano da lui composto ed ancora inedito che nasce da un testo recuperato da una raccolta di canti arbëreshë dell’Ottocento. Ci sono poi Meli Hajderaj, cantante albanese dalla voce meravigliosa, arrivata in Italia negl’anni Novanta, e Mimma Montanaro, arbëreshëdalla voce antica di San Marzano in Provincia di Taranto, altro luogo ricchissimo di tradizioni. Venendo, invece agli strumentisti, abbiamo la violinista albanese Anila Bodini che ha collaborato a lungo ed è stata parte anche dei Radiodervish, Guido Sodo che è un altro esperto di musica etnica, Max Però all’organetto, Pierpaolo Petta alla fisarmonica che è un musicista arbëreshë di Piana degli Albanesi, il maestro Domenico Virigili di Napoli, il percussionista Pippo D’Ark D’Ambrosio che suona anche con i Radiodervish, Francesco De Palma alla batteria, e Gianluca Milanese al flauto che suona anche nell’Orchestra della Notte della Taranta. C’è poi anche Marina Latorraca che suona il trombone alla balcanica ma con uno stile molto personaleed il percussionista Mimmo Gori, il cui incontro ha permesso di mettere in cortocircuito la musica arbëreshë e la musica albanese con i progetti di musica italo-albanese che avevo creato. Lui organizza da anni il Festival Dello Scorpione nella provincia di Taranto e che ha una sezione dedicata proprio alla realtà dell’Arberia, in virtù della presenza di una comunità arbëreshë a San Marzano. Da ultimo ma non meno importante abbiamo avuto la collaborazione di di alcuni musicisti della Fanfara Tirana.
Come avete selezionato il repertorio di brani da proporre nel disco?
Il repertorio dei brani è quello relativo alle prime canzoni che abbiamo condiviso e da quelle ne abbiamo selezionate sette, tra tradizionali e composizioni d’autore che però sono abbastanza recenti, essendo relative agli anni Settanta.
Pur essendo all’epoca l’Albania un paese molto isolato, la musica di questi autori kossovari ha attraversato il mare in maniera quasi clandestina ed è arrivata come nel caso di “Baresha” o di “Festa E Madhe” nei paesi arbëreshë dove sono diventate delle vere e proprie hit molto popolari, nelle quali gli italo-albanesi si identificano. Altro discorso va fatto per brani come “Lule Lule” che ha cinquecento anni ed appartiene indistintamente alle due popolazioni. Abbiamo scelto i brani che ci piacevano di più inserendoli all’interno di un percorso che parte con un canto a cappella “Madonna De Li Grazi”, cantato dalla Bordonaro e che rappresenta la radice del Sud Italia che parte ed attraversa il mare fino ai Balcani per giungere ad Istanbul con le sue sonorità.
Nel disco sono presenti anche alcune composizioni originali…
Quasi fossero una sorta di isole queste canzoni sono collegate da brani che ho composto io e servono da punti di incontro. Sono brani ispirati a quel clima musicale ed hanno un taglio più onirico allontanandosi molto dagli stilemi noti della musica balcanica che ci ha fatto conoscere Bregovic. Volevamo documentare la ricchezza di questa terra, qualcosa di ben diverso dall’unza unaza che abbiamo imparato a conoscere.
Quali sono state le ispirazioni alla base delle tue composizioni?
L’influenza è arrivata da tutti questi anni di ascolti ed anche di creazione di brani originali.Questi sono solo alcuni di quelli che ho scritto perché ne abbiamo anche altri. L’idea alla base del laboratorio è quella di proporre una tradizione viva perché non basta fare un recupero filologico di quello che c’è o di quello che si può andare a scovare che è certamente interessante ma non ci basta. Non ci piace mettere in museo questi modi musicali o queste tradizioni ma per noi è importante dargli vita e viverle, renderle vitali e ciò significa apportarvi la propria visione. Questo era lo spirito che ci ha animato come Radiodervish in tutte le nostre visioni della world music, legarci alle radici ma creare anche musiche attuali.
Durante i concerti ci saranno gran parte dei musicisti che hanno suonato nel disco. Attualmente siamo impegnati con la promozione con gli showcase a cui seguirà un tour nei paesi arbëreshë e poi una serie di concerti nei principali festival world.
Parlando di musiche attuali dai Radiodervish a Skanderbad, quali le differenze e quali le identità tra queste due realtà?
Penso che la differenza sia che con i Radiodervish sono due mondi diversi che si incontrano e lavorano molto sulle sensibilità personali, poi al centro c’è il Medioriente mentre con Skanderband parliamo di altri suoni. Radiodervish è un mondo meno entno, e più legato a memorie personali, è una vista in soggettivo della musica mentre Skanderband è un progetto legato a radici più profonde dal punto di vista storico proprio per il suo carattere laboratoriale.
Facendo un passo indietro di alcune mese e soffermandoci sui Radidervish. Com’è nato il vostro ultimo disco “Cafè Jerusalem”?
“Cafè Jerusalem” nasce dal desiderio di raccontare Gerusalemme, questa città che è molto complessa e per questo molto affasciante, partendo dall’esperienza che abbiamo fatto noi sul campo. Abbiamo visto questa città con gli occhi di chi la vive, come Paola Caridi, scrittrice italiana che ha vissuto lì dieci anni. Abbiamo cercato di andare oltre lo stereotipo della città religiosa e della letteratura giornalistica, vivendola dal punto di vista più umano, e dunque abbiamo proovato a raccontarla attraverso una sorta di decalage contemporaneo. Abbiamo pensato a questa città com’era prima della nascita di Israele, quando era una metropoli multiculturale, dove nei caffè potevi incontrare uno affianco all’altro persone di religioni e culture diverse che potevano prendere un caffè insieme o scambiarsi opinioni.
Tutto questo oggi non è possibile perché si sono creati muri, ghetti e le appartenenze valgono per creare divisioni non arricchimento. Per questo racconto ci siamo avvalsi delle figure degli hakawati, cantastorie che si trovavano e si trovano ancora nei caffè mediorientali i quali restituivano la realtà trasfigurata dalla visione artistica creatrice. Essendo Gerusalemme una città legata alla brutalità e alla violenza volevamo raccontarla con altri occhi per offrire prima a noi stessi e poi a chi ascolta una visione differente. Come file rouge ci siamo basati su un romanzo di Paola Caridi che racconta di un amore nato negli anni Trenta tra una donna palestinese e un giovane colono ebreo appena arrivato a Gerusalemme. E’ la storia di un amore impossibile ma non improbabile perché è accaduto o accadrà, ma è l’unico modo per superare le barriere. Questo disco è poi diventato anche uno spettacolo teatrale prodotto dal Teatro Stabile di Genova che abbiamo portato in tour per tutto lo scorso anno.
Quali sono le differenze sostanziali con i dischi precedenti?
Musicalmente abbiamo registrato in presa diretta, senza sovraincisioni perché volevamo dare il suono di quelle orchestre presenti nei caffè. Allo stesso modo per gli arrangiamenti abbiamo lavorato per sottrazione in modo che potessero funzionare anche dal vivo. Tutto questo ha caratterizzato il disco dal punto di vista del sound che è meno elaborato rispetto ai precedenti.
Skanderband – Skanderband. New Arbëreshë Albanian Music (Cosmasola/Believe Digitale, 2016)
E’ l’itinerario di un viaggio affascinante e coinvolgente alla scoperta delle interazioni sonore tra le due sponde dell’Adriatico, tra Albania ed Italia, quello realizzato dall’orchestra-laboratorio Skanderband nel suo disco di debutto omonimo, prodotto con il sostegno di Puglia Sounds Records. Creato nel 1998 da Michele Lobaccaro (basso, chitarra e baglama), questo large ensemble raccoglie un folto gruppo di eccellenti strumentisti come Anila Bodini (violino), Marina Latorraca (tromba e trombone), Gianluca Milanese (flauto), Guido Sodo (Oud e arpa celtica), Pierpaolo Petta (fisarmonica), Max Però (organetto), Domenico Virgili (piano), Mimmo Gori (conga, udu, bell, collar, e cajon), Pippo Ark D’Ambrosio (tar, bendir, darbuka, e singing bowls), Francesco Corrado De Palma (batteria), Fatbardh Capi e Namik Cepele di Fanfara Tirana (clarinetto), a cui si aggiungono le tre voci femminili di Eleonora Bordonaro, Meli Hajderaj e Mimma Montanaro. Accompagnato programmatico sottotitolo “New Arbëreshë Albanian Music”, il disco è un esempio di come la ricerca attraverso le radici di una tradizione musicale possa creare connessioni temporali tra passato, presente e futuro, mettendo in luce sorprendenti ed inattesi fenomeni di osmosi culturale. Dal punto di vista musicale si apprezza il pregevole lavoro operato da Lobaccaro in fase di arrangiamento, con orchestrazioni eleganti ed allo stesso tempo originali che mirano ad esaltare le complesse quando affascinanti strutture musicali della tradizione albanese ed arbëreshë. Ben lungi dall’operare una asettica rilettura filologica, la Skanderband si fa interprete di una tradizione in movimento, diventando parte integranti di essa non solo nelle modalità di reinterpretazioni di brani tradizionali ma anche attraverso composizioni orginali. Ad aprire il disco è il canto devozionale siciliano “Madonna De Li Grazi” nella intensa interpretazione a capella della Bordonaro che ci introduce a quei due gioielli che sono “Quifti” e “Ec Ec” a cui segue la splendida “Waiting”. “Xhamadani” ci apre poi la strada alle splendide versioni di tradizionali come “Baresha”, “Festa E Madhe” in cui spiccano i fiati di Fanfara Tirana e “Lule Lule” ma anche ai fascinosi inediti “Adriatik” e “Memorie” firmate da Lobaccaro, ma soprattutto all’intensa “Kendime” su testo ottocentesco musicato da Ambrogio Sparagna, che rappresenta uno dei vertici del disco. Quest’opera prima della Skanderband è, dunque, un disco da ascoltare con attenzione per godersi a pieno tutto il fascino di questo progetto.
Radiodervish – Cafè Jerusalem (Alabianca/Cosmasola, 2015)
Ispirato da un viaggio a Gerusalemme e dal testo omonimo della scrittrice Paola Caridi, “Cafè Jerusalem”, il nuovo album dei Radiodervish è parte integrante di un progetto artistico più ampio evolutosi in una tournée teatrale con la quale hanno attraversato la nostra penisola lo scorso inverno. Si tratta di un concept album che ruota intorno alla storia di un amore impossibile tra due giovani, una palestinese ed un colono ebreo, sbocciato negl’anni Trenta e narrato attraverso le modalità del canto degli hakawati, i cantastorie dei cafè mediorientali, evocati in modo straordinario dalla voce di Nabil. A differenza dei dischi precedenti il sound si è fatto più diretto ed essenziale, complice anche la scelta di registrare in presa diretta, ma ciò che colpisce è lo spessore poetico dei testi nei cui versi è racchiuso il sogno di una pace possibile solo con il dialogo e l’incontro. Aperto dalle sonorità speziate della poetica “Cardamom”, cantata in arabo e inglese, il disco entra nel vivo con le trame acustiche intessute dalla chitarra di Lobaccaro di “Nura” il cui testo arabo racconta la storia della protagonista, e prende il volo con l’introspettiva “Promenade” nel cui intreccio di lingue si cela l’incontro tra la chanson francese e i suoni mediorientali. La splendida “Hawakati” ci introduce prima alla struggente canzone d’amore “Love me in Jerusalem” nella quale brilla l’oud di Adolfo La Volpe e poi al dolcissimo incontro clandestino di “Musrara” raccontato sulla sinuosa melodia dell’accordion di Alessandro Pipino. Il ritmo festoso dei “Jaffa Gate” ci conduce verso il finale in cui “Out Of Time” ci riporta al presente ed al dramma di una Gerusalemme dilaniata dai conflitti religiosi tra israeliani e palestinesi. “Cafè Jerusalem” è, dunque, il disco più maturo e compiuto dei Radiodervish tanto dal punto di vista musicale quanto da quello prettamente lirico e competitivo.
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