Ensemble Bîrûn – I maftirîm e le opere degli ebrei sefarditi nella musica classica ottomana (Nota/EDT, 2016)

Se questo Paese non vivesse su luoghi comuni, se l’inettitudine mediatica a cui è pienamente funzionale parte della critica musicale che avesse smesso di andare alla ricerca del mondo reale, limitandosi ad amplificare solo ciò che accade nei social media (e anche qui ci sarebbero da ricercare le informazioni con accuratezza), il programma che dal 2012 è attuato dall’Istituto Interculturale di Studi Musicali Comparati della Fondazione Cini, in collaborazione con l’università Ca’ Foscari e l’editore Nota, sarebbe uscito dall’alveo degli interessi degli specialisti per essere presentato come modello magistrale di progetto musicologico, culturale e discografico. Stiamo parlando del Bîrûn veneziano, che approfondisce la prassi esecutiva della musica d'arte della scuola ottomano-turca tra XIV e XX secolo. Si tratta di forme musicali di carattere modale, microtonale, monofonica, eterofonica, sviluppate su compositi cicli ritmici. Il Bîrûn è un programma di ricerca organizzato in più fasi, che prevedono un bando internazionale per l’assegnazione di borse di studio rivolte a musicisti, giornate di studio curate dal musicologo Giovanni De Zorzi, lavoro in residence degli assegnatari delle borse riuniti in un ensemble musicale sotto la direzione del grande maestro del ney Kudsi Erguner, un concerto pubblico che è registrato affinché ne sia possibile la pubblicazione su supporto CD-book. Com’è accaduto per i due precedenti gruppi di studio, ora anche la performance con cui è culminato il seminario 2015 è stata data alle stampe, presentandoci un altro rilevante aspetto del cosmopolitismo della tradizione musicale ottomana. Con Kudsi Erguner (flauto ney e direzione musicale) e Giovanni De Zorzi (flauto ney), i solisti che costituiscono l’Ensemble Bîrûn 2015 sono Giordano Antonelli (ribeca), Lucile Belliveau (contrabbasso), Hüseyn Bilgiç (liuto a manico lungo tanbûr), Mert Demircioğlu (cetra su tavola pizzicata kanûn), Chrysanthi Gkika (viella kemençe), Francesco Iannuzzelli (liuto a manico corto ‘ûd), Safa Korkmaz (voce), Giannis Koutis (voce e liuto a manico corto ‘ûd), Yinon Muallem (percussioni), Aron Saltiel (voce), Gülnur Gizem Sucu (liuto a manico corto ‘ûd) e Ruben Tenenbaum (violino). Questo gruppo di musicisti originari di Grecia, Turchia, Italia, Cipro, Francia ed Israele interpreta materiali di compositori di origine ebraica, attivi nella Turchia ottomana fin dal quattordicesimo secolo. Ebbene, la pratica di rimozione o la formula di reinvenzione sotto l’egida “turca” dell’arte musicale di compositori ebrei, attuate dalla modernizzazione nazionalista kemalista, hanno negato la convivenza di comunità religiose e culturali nell’impero ottomano, alla cui vita musicale gli ebrei (presenti sin dalla metà del Trecento come comunità di romanioti e ashkenaziti, ovvero prima della migrazione sefardita seguita alla cacciata da al-Andalus) furono tra i protagonisti come poeti, compositori e strumentisti. Gli ebri adottarono il sistema estetico e stilistico modale dei maqâm, agirono a corte come precettori, furono stimatissimi dai sultani (si pensi a Izak Fresco Romano, detto tanbûrî Izak dal nome dello strumento che suonava e insegnava, vissuto tra la metà del Settecento e il primo decennio dell’Ottocento, ritenuto caposcuola del tanbûr moderno), partecipavano alle cerimonie delle confraternite mevlevî, i dervisci, composero brani di carattere liturgico, ma generarono anche nuove espressioni musicali. All’interno dei repertori dei compositori sefarditi, molto interessanti sono i maftirîm (significa ‘fine’ o ‘chiusura’), impiegati per mettere in musica i piyyutîm, vale a dire i componimenti poetici destinati alla cantillazione durante la conclusione dei riti sinagogali. La nuova produzione di Ensemble Bîrûn esercita un grande fascino e suscita un enorme piacere musicale, scaturito da composizioni in forma di suite (fasil) con interludi (taqsím), che mettono in evidenza la tecnica e la forza strumentale dei solisti. L’album (corredato da un libretto di cinquantaquattro pagine contenenti l’introduzione al progetto, elementi biografici sui compositori e le note ai brani – in italiano e in inglese – curate da Erguner, che ci portano in una civiltà musicale di grande prestigio) si compone di quattordici tracce che offrono un panorama sonoro ricco di modalità vocali, di poesia, di melodie, di cangianti passaggi ritmi e di colori strumentali. Oltre al già citato Izak Fresco Romano di cui ascoltiamo la notevole “Geradniyye Puselik Saz Semai”, che chiude l’album, primeggiano “Yah Kadosh”, un maqam segah di Rabbi Yehuda Ben Aroya, l’accorpamento del semâí vocale e strumentale “Huzzam Sengín “Mi Yemallel”, il primo proveniente dalla penna di Izak Maçoro (1918-2008), cantore sinagogale di Istanbul e tra gli ultimi depositari della grammatica modale del maqam, il secondo opera del cantore e liustista Haham Muşe Fao (? – 1760). Un altro brano dalla forte impronta di originalità è “Sefatay lo Ehla”, ritenuto dal curatore una delle composizioni più antiche del repertorio dei maftirîm, dove sembra si incontrino antico mondo andaluso e sistema modale ottomano. Da segnalare anche i due taqsím “Nihavend” per kemence e tanbur e “Şehnak” per violino e kanún e il preludio strumentale “Dilkeş Hâverân”, suonato con ‘ûd e violino. 

Ciro De Rosa

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