Yo Yo Mundi – Evidenti tracce di felicità (Felmay/Egea, 2016)

«”Evidenti tracce di felicità” è un album parente stretto del precedente “Munfrâ”; con quel lavoro ci siamo liberati da molti pregiudizi, siamo stati curiosi e, in qualche modo, coraggiosi e, infine, siamo stati ripagati in modo significativo sia dalla critica (per un pelo non ci è stato assegnata una Targa Tenco) e sia dal pubblico. È indubbio che anche la nostra creatività ne abbia giovato e credo che in questo nuovo lavoro si senta distintamente. “Evidenti tracce di felicità” nasce dalla consapevolezza regalataci da “Munfrâ” e dal desiderio di continuare a cercare, senza smettere di essere curiosi. Per dribblare ancora una volta pregiudizi e luoghi comuni tipici della penisola e per garantire, agli ascoltatori ma anche a noi stessi, quella varietà di colori e leggerezza che caratterizzano il nuovo album. In Italia il sabato sera le radio trasmettono musica da discoteca - nemmeno il liscio è così fuori tempo massimo! -, ma poi non è un'assurdità, la discoteca alla radio? In Italia si chiamano attuali o, erroneamente moderni: moderno era Giotto (ride, ndr), quei suoni tutti uguali comprati un tanto al chilo al mercato dei plug in. In Italia i nostri ragazzi crescono ascoltando il rap, ballando hip hop e quelli che si improvvisano dee-jay cercano di farsi passare come musicisti. Mentre nel mondo intero i suoni acustici, l'immediatezza mnemonica, la profondità di suono, il potere evocativo della musica realizzata con le mani, il cuore, il fiato e la bocca sono davvero attuali e contemporanei e certa elettronica è giustamente considerata come musica fast food buona per gli spot. E poiché noi Yo Yo Mundi siamo convinti che si debba suonare "con gli occhi chiusi" e sognare con "le orecchie aperte" (come cantiamo in “Ai ssùma tùrna”), siamo anche convinti di aver fatto scelte sonore limpide, potenti, sane e in sintonia col respiro della musica di oggi, quella che colora il mondo. Il titolo? In questi tempi di crisi niente è più trasgressivo della felicità». Abbiamo dato la parola a Paolo Archetti Maestri, front-man e autore dell’ultraventennale band monferrina, per presentare questo nuovo disco appena pubblicato da Felmay, label storica delle musiche trad in Italia. Musica e parole saldate in un unicum che non possiamo, né vogliamo, etichettare; è una confluenza di stilemi folk-rock e di canzone d’autore. C’è una significativa ricerca nei timbri acustici e nelle screziature elettriche (il disco privilegia suoni analogici), nelle melodie mai scontate che lasciano fuori i cliché retorici di matrice cantautorale, c’è un suono avvolgente. Ci sono liriche che mettono in luce l’immaginario e la quotidianità della provincia (com’è noto, gli YYM sono acquesi); la narrazione mai superficiale di racconti comuni, tra passato e presente di una terra contadina, che è stata partigiana, la ricerca di un futuro possibile in cui il rapporto con la natura sia ineludibile. All’interno del box, lì dove si inserisce il dischetto, gli YYM scrivono: «Se in ogni lacrima c’è una poesia in ogni sorriso ci sarà una rivoluzione», che nel recitato francese è anche l’incipit della title-track. Accanto a Paolo Enrico Archetti Maestri (voce, chitarra acustica elettrica e classica, charango, bouzouki, armonica, kazoo, richiami) ci sono Simone Lombardo (cornamusa, ghironda, flauto), Fabio Martino (fisarmonica), Andrea Cavalieri (basso, contrabbasso e voce), Eugenio Merico (batteria), Fabrizio Barale (chitarra elettrica e lap steel) e soprattutto Chiara Giacobbe (violino), nuova arrivata, anche se già collaboratrice da alcuni anni, il cui apporto compositivo al disco è importante sul piano degli arrangiamenti. Tra gli amici ospiti, ricordiamo l’ottimo bluesman Paolo Bonfanti (chitarra acustica Nation steel guitar), il grande Gianni Maroccolo (basso elettrico), le voci di Cristina Nico (“Cuore Femmina”), cantautrice genovese di matrice rock, Anna Maria Stasi (“Chiedilo alle nuvole”) e Betti Zambruno (voce recitante in “Di rose, di fiume, di confine”), Andrea Negruzzo (clavicembalo, eh sì!). Il disco in dialetto “Munfrà” ha lasciato tracce nella lingua del nuovo album, che diversamente dal precedente non presenta strumentali, ma dodici storie legate dal filo rosso del ritrovamento di tracce di felicità scolpito già nel titolo. In tempi di orrori globali, di disincantato individualismo, gli YYM ci parlano di trasgressività della felicità dell’incontrarsi, nel riconoscersi o semplicemente nel sorridere. Si parte con «Sempre» - il singolo lanciato da un video di Ivano Antonazzo, che termina con una citazione di Carlo Mazzacurati («Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai niente. Sii gentile sempre»). “Ai ssùma tùrna” è uno di quei brani che ritrovano lo spirito di “Munfrà”, ispirato dall’incontro con Carlin Petrini di Slow Food e gli studenti della Facoltà di Scienze Gastronomiche di Pollenzo a cantè j’euv (‘‘cantare le uova”) per le Langhe e il Monferrato. Segue la title-track, che è la dichiarazione lirica del disco, con il suo folk-rock animato da fisa, flauto e violino e il timbro metallico e risonante della steel guitar di Bonfanti. “La luce del mondo quando si risveglia”, che è imperniata su voce, chitarra, violino e contrabbasso, fotografa uno dei momenti più belli da vivere. La voce di Cristina Nico riempie ‘Cuore Femmina’, mentre “Il ragazzo che cantava il carnevale” è stata scritta e dedicata al musicista Gianrico Bezzato, leader dello storico gruppo acquese Knot Toulouse, scomparso quattro fa, ricordato dal coro dei suoi compagni del gruppo, da archi beatlesiani e da una bella armonica. Tocca, poi, a due canzoni d’amore: nella prima, “Chiedilo alle nuvole”, Archetti Maestri duetta con la limpida voce di Anna Maria Stasi tra ricami acustici di chitarra, fisarmonica e clavicembalo, mentre “Tutte le memorie scritte del mondo” ha un andamento cantautorale, e ancora una volta testi che lasciano il segno. L’unica canzone interamente in dialetto è “Ciâpapùve”, che racconta di un personaggio inventato che di giorno fa l'arcatòn (nel Monferrato è il roba vecchia, un rigattiere che raccoglie oggetti buttati via). Qui raccoglie la polvere che si è posata sugli oggetti, perché lì – pensa – risiede la memoria delle storie della gente comune. Di notte, invisibile ma con occhi da gatto, entra nelle case per spargere negli occhi dei bambini la polvere che ha raccolto, affinché possano custodire un patrimonio di memorie e di storie popolari. In riva al Bormida si ritrova la strana donna di “Reinna” (dove vanno a braccetto ghiranda e lap steel), subito additata come portatrice di sventura dal pregiudizio e dalla superstizione sull’alterità della comunità, ma una “bambina cieca” la riconosce come regina denunciando la meschinità del gruppo. Ancora sulle cattive coscienze s’interroga “Annusiamo le parole”. L’ultima toccante canzone è “Di rose, di fiume, di confine”, intrisa di sapore monferrino, dedicata com’è a Giovanni Rapetti, il bardo di Villa del Foro (1922 –2014), di cui la voce unica di Betti Zambruno recita uno stralcio di poesia in dialetto alessandrino («Qui la memoria ha scritto storie folli / i sogni della gente, dei cani, l’abbaiare, le parole. / Me le hanno dette i vivi per i morti, prima di scomparire / storie del sole, della luna, dolce e amara. / Storie di pesci, uccelli, carri, zampe / di bestemmie e paternostri detti quante volte. / Storie d’un paese, del grano, della meliga / storie di Tanaro e Belbo, dell’erba, della stella»). 


Ciro De Rosa

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