L’album omonimo “Truma” è una raccolta di brani originali pensati e suonati dentro uno scenario musicale a metà strada tra sonorità tradizionali e un folk d’autore appassionato. A ben vedere le sonorità tradizionali sono meno nette, perché nella maggior parte dei casi si possono ricondurre all’uso del dialetto. E si inquadrano in una scrittura che risente di influssi differenti che, nel loro insieme, costituiscono gli elementi che meglio rappresentano l’album della formazione di Chioggia: atmosfere strutturalmente acustiche (fisarmonica, chitarra, mandolino, contrabbasso), ricamate con fraseggi di chitarra elettrica, una ritmica composta, lineare (batteria, percussioni) e sempre quadrata, una narrazione e un canto che si configurano dentro linee melodiche mai scontate e spesso originali (come, ad esempio, nel brano “Zogelo”). Nei dieci brani in scaletta si incontrano anche alcune soluzioni più convenzionali (“Col fio in brasso”, “Il mare”), nelle quali si fa un po' più fatica a decifrare gli elementi riconducibili al suono e alla visione dell’ensemble. Il quale, nella selezione e nell’organizzazione generale degli elementi (timbrici, melodici, ritmici), sembra lasciare troppo spazio ai maestri a cui si ispira. Intendiamoci è sempre un bene ispirarsi a De Andrè o Capossela, ma inevitabilmente si schiaccia la propria voce. E in “Truma” ci sono molti spunti che definiscono uno stile nuovo e personale, che vale senza dubbio la pena definire fino in fondo: come ho detto c’è il dialetto, attraverso il quale Riccardo Vianello riesce a costruire melodie sempre dinamiche e “ampie”, mai retoriche né ridondanti. Poi c’è l’alternanza di un suono più elettrico - riconducibile, come detto, ad alcune incursioni della chitarra elettrica - con una struttura generalmente acustica e compatta, sul piano del ritmo e, sopratutto, del timbro. Una struttura nella quale, nonostante i pochi strumenti presenti nell’album, si possono sentire molti suoni, che modulano i brani attribuendo a ogni passaggio e a ogni parte di cui si compongono spessori e profondità diverse. In questo senso un brano come “Ca’ roman” è un buon esempio dell’ordine con cui i Truma inquadrano la loro musica. Mi piace anche sottolineare la tenacia con cui nell’album si ancora il racconto al territorio di provenienza della band. Certo non si tratta di garantire qualcosa (la qualità dell’opera? la sua originalità?) perché ispirato da un contesto preciso. Non è così banale e “tradizionale” la connessione di “Truma” alla dimensione culturale chioggiana, declinata con immagini piacevolmente eleganti alla figura dell’isola e all’immaginario che ne fa da corollario. Il processo di territorializzazione che inevitabilmente (e allo tesso tempo volutamente) inquadra l’album, ha a che vedere con qualcosa di più ambiguo, forse profondo e sicuramente sfaccettato, spigoloso. Spigoloso, d’altronde, è il racconto in dialetto. E specie in un dialetto a cui non è avvezzo anche chi, come noi che scriviamo e leggiamo qui, ascolta molta musica “popolare”: il napoletano, il salentino, il calabrese si percepiscono come lingue musicali, come un flusso paragonabile all’inglese. Quella lingua di quella striscia di Veneto invece mi fa pensare al contrasto (al suono compiuto, tenace, metrico del rimbalzo di qualcosa di duro e morbido allo tesso tempo: una pallina da ping pong?), alla divergenza tra la sinuosità di un onda e il rumore del suo schiaffo alla battigia. Sembra che “Truma” si sia spinto proprio qui. E non è certo una cosa da poco: le immagini che emergono dai brani sono estranee in un primo momento, come se arrivassero da molto lontano, poi si ammorbidiscono, si asciugano e si lasciano trasportare dentro e sopra una trama sonora pacata, ferma, avvolgente. La bellezza dell’album la possiamo trovare proprio in questa tensione irrisolta, accentuata dalla volontà di alternare il linguaggio personale a quello tradizionale (inteso nel duplice senso di “orale” e “popolare”, ovvero “popolano” e “d’autore”, antico e contemporaneo, “locale” e “nazionale”).
Daniele Cestellini
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