Speciale Roots Rock: Grayson Capps, Dayna Kurtz, David Corley, Jimmy LaFave, Rocky Votolato, Old Man Luedecke, Dan Israel, Sean O’Brien, Ron Pope & The Nighthawks, Alectro

Grayson Capps - Love Songs, Mermaids and Grappa (Appaloosa/I.R.D., 2015)
Cantautore dell’Alabama nel cui DNA musicale si intrecciano l’amore per la roots music, il rock e il blues, Grayson Capps, dopo l’eccellente “If You Knew My Mind”, ha raggiunto il successo su larga scala con “A Love Song For Bobby Long” per il film omonimo con John Travolta e Scarlett Johansson, tratto dal libro scritto dal padre Roland, per tornare a percorrere i sentieri lontani dallo showbiz con dischi come “Wail & Ride”, “Rott 'N' Roll” e “The Lost Cause Minstrels” che in maniera differente esploravano la migliore tradizione dei troubadour americani. Lo scorso anno, in concomitanza con un tour estivo nella nostra penisola, il cantautore americano ha dato alle stampe “Love Songs, Mermaids and Grappa”, doppio album a metà tra antologia e raccolta di brani inediti, pubblicato in esclusiva per il mercato italiano dalla Appaloosa Records. Il primo disco raccoglie otto brani tra inediti e riletture ad hoc, incise per l’occasione in veste completamente unplugged in coppia con il chitarrista emiliano J.Sintoni che lo ha accompagnato anche nel corso del tour. Aperto dallo splendido gospel “May We Love” in cui spicca il mandolino di Will Kimbrough, il disco si snoda attraverso il blues rurale di “Hold Me Darlin'” la cui struttura ritmica è costruita essenzialmente sulla kick drum, le brillanti riletture di “Poison”, qui trasformata in una “Drink A Little Grappa” ad alto tasso alcolico e “Washboard Lisa”, fino a toccare lo strumentale “Windy and Warm” di John D. Loudermilk. Completano il disco il blues di “Song For You”, la balata roots “Roll Away” e “Taos”. Il secondo disco, intitolato “Classico”, raccoglie diciassette brani tratti dalla sua discografia che, nel loro insieme, ben rappresentano l’essenza del songwriting di Capps, ritraendolo ora alle prese con le sonorità di New Orleans, ora con rock, ora ancora con il country e il blues. Durante l’ascolto a spiccare sono brani come la dolce “Lorraine's Song”, quel gioiellino che è “Coconut Moonshine”, le evocazioni strada iole di “Highway 42, oltre ovviamente ai classici “”If You Knew My Mind”, “Wail & Ride” e “A Love Song For Bobby Long”. Insomma “Classico” funge da ottima introduzione per la discografia di Capps che, ad ogni buon conto, consigliamo di ascoltare con attenzione, perché cantautori come lui sono ormai una rarità.

Dayna Kurtz – Rise and Fall (Kismet/Appaloosa/I.R.D.,2015)
Spesso i momenti più difficili della vita possono trasformarsi per un artista in linfa vitale per la propria ispirazione. Sebbene questo assunto possa avere il tratto del luogo comune, accade in qualche caso di doverne acclarare la veridicità. E’ il caso di “Rise And Fall”, album che segna il ritorno sulle scene della cantautrice americana Dayan Kurtz, della quale avevamo perso le tracce dopo i due volumi di “Secret Canon” in cui aveva raccolto alcune personali riletture di brani soul, blues e jazz. Questo nuovo album, infatti, nasce a margine di uno dei momenti più difficili della sua vita con la perdita del padre e la fine del suo matrimonio. Tutto ciò si riflette in ballate dalla elegante trama acustica che spaziano dal folk al country-gospel, e rimandano alle pagine migliori della sua discografia, ed in particolare a “Another Black Feather” e “American Standard” che avevano svelato al grande pubblico il suo originale approccio al songwriting.  Durante l’ascolto, a spiccare subito sono, senza dubbio, i due brani di apertura la splendida ballata dai toni romantici “It's How You Hold Me” e il soul di “You're Not What I Need (But You're All I Want)”, ma andando più a fondo, il disco svela altre perle come “Raise the Last Glass” in cui spicca il dialogo tra la chitarra di Robert Mache e l'accordion di Peter Vitalone, la struggente “If I Go First e Eat It Up” nella quale banjo e mandolino ricamano la linea melodica, il folk di “Yes, You Win” e la gustosa “Far Away Again” nella quale brilla la sezione di archi. A completare il disco è la rilettura di “You'll Always Live Inside Me” di Bobby Charles e David Allan Coe, posta in conclusione e magistralmente interpretata dalla Kurtz. Nella versione italiana, pubblicata da Appaloosa Records, è presente anche un pregevole bonus disc, composto da cinque brani, tra cui vanno citate l’autografa “Touchstone” del 1997, e le personali versioni di “My Babe” di Willie Dixon, “All Too Soon” di Duke Ellington e il classico soul “That's How Strong My Love Is”, che sembrano fare da corollario e da connessione tra questo nuovo album e i due volume di “Secret Canon”.

David Corley - Available Light (Continental Song City/I.R.D., 2015) 
Cresciuto con la musica di Beatles, Van Morrison, Neil Young e Bob Dylan, David Corley ha inseguito a lungo il sogno di diventare una cantautore. La sua storia, infatti, racconta di una vita trascorsa sulla strada, in continuo tumulto cambiando decine di lavori, e di un volontario esilio sulle montagne della Georgia, prima di far ritorno nella natia Lafayette nello stato dell’Indiana. Dopo essere sopravvissuto ad un infarto, arriva l’esperienza con i Medicine Dog, una piccola band locale con cui suona le sue canzoni, e l’incontro casuale con il produttore canadese Hugh Christopher Brown che ne resta colpito, gli apre la strada alla realizzazione del suo sogno. Così, all’età di cinquantatre anni, David Corley debutta con “Avilable Light”, disco nel quale ha raccolto dieci brani dalla trama country folk, registrati tra il Canade e Brooklyn, e caratterizzati da un sound elegante sound vintage dove spicca l’utilizzo di Wurlitzer, B3, e pianoforte. Ad impreziosire il tutto c’è poi la voce di Corley rauca ed intensa, perfetta per veicolare il contenuto personalissimo delle sue ballate dai toni riflessivi ed introspettivi. Ad aprire il disco è la title track, un raggio di speranza, che ci introduce al folk-rock di “Beyond The Fences” nella quale si mescolano influenze che vanno dal Bob Dylan di Blonde on Blonde al Van Morrison più riflessivo. Se il roots rock di “The Joke” si lascia apprezzare per la sua carica energetica, le successive “The Joke” e “Easy Mistake” ci rivelano una scrittura originale ed allo stesso tempo radicata nella migliore tradizione classic rock. Gli echi di soul che pervadono “Dog Tales” fungono da perfetto apripista per dolce e struggente “Unspoken Thing”, prima che irrompa la tetra murder ballad “Lean”. Il vertice del disco arriva, però, verso il finale con l’intensa “Neptune/Line You’ve Leavin’ From” che ci schiude le porte prima al lungo e tormentato blues elettrico “The End Of My Run” e poi al soul-blues di “The Calm Revolution”. “Available Light” è, dunque, uno di quei dischi da ascoltare con grande attenzione per cogliere la profondità di un cantautore dall’esistenza tormentata, ma dalla profondissima vena poetica.

Jimmy LaFave – Trail Four (Music Road Records/I.R.D., 2015)
A breve distanza dal pregevole “The Night Tribe” dello scorso anno, Jimmy LaFave ha dato alle stampe il quarto volume della serie “Trail”, la sua personale bootleg series, edita parallelamente alla sua discografia ufficiale, e destinata a raccogliere brani inediti, e performance live. Sebbene dedicati prettamente ai suoi fans, questi album hanno il pregio di offrire a quanti non vivono negli States, una eccellente testimonianza delle grandi doti di performer del cantautore texano. “Trail Four”, in particolare, raccoglie dodici brani registrati con una straordinaria band composta da Kevin Carroll (chitarre), Herb Belofsky (batteria), Stewart Cochran (tastiere), RandyGlines (basso), Gary Primich (armonica), e Darcie Deaville (violino), con la partecipazione speciale del grande GurfMorlix alla lap-steel. Come, nei precedenti volumi, anche questo affianca a brani autografi, alcune riletture d’eccezione, proposte essenzialmente con l’obiettivo di far emergere le ispirazioni costanti per il suo songwriting. Ad aprire il disco è l’omaggio all’amato Fats Domino con una intensa “Walking To New Orleans”, a cui segue prima uno dei brani più belli del repertorio di LaFave, ovvero la pianistica “When It Starts To Rain (Austin Syline)”, e poi il ricordo di J.J. Cale con una impeccabile resa di “Call Me The Breeze (Naturally”. Non mancano alcune riletture dal songbook di Bob Dylan, del quale nel già citato “The Night Tribe” aveva proposto “Queen Jane Approximately” e che qui ritroviamo nella resa elettrica di “She Belongs To Me”,  nella struggente “I’ll RememberYou”, nella serrata“Chimes Of Freedom” e in “It Takes A Lot To Laugh, It Takes A Train To Cry”, riproposta in una bella versione blues. Sempre sul versante delle riletture, ci piace segnalare “Rocket In My Pocket” dei grandi Little Feat di Lowell George con il piano di Cochran a giganteggiare, una bella Route 66 Revisited e una appassionata “Snowin’ On Raton” dal repertorio di Townes Van Zandt, mentre dei brani autografi sorprende la riscoperta di “Hideaway Girl” da “Cimarron Manifesto”, e la splendida ballata“Worn Out American Dream” dal “Buffalo Return To The Plain”. Sebbene la confezione non rechi alcun dato su dove e quando sono stati registrati questi brani, “Trail Four” è offre la preziosa occasione per scoprire tutte le doti di interprete e performer di Jimmy LaFave.

Rocky Votolato – Hospital Handshakes (Glitterhouse Records, 2015)
Originario del Texas ma ormai residente stabilmente a Seattle, nello stato di Washington, Rocky Votolato, dopo aver musicalmente mosso i primi passi con i Waxwing, ha imboccato con decisione il percorso solista arrivando a mettere in file una decina di album, tuttavia negli ultimi anni la sua carriera ha conosciuto un periodo buio, in cui è arrivato a meditare il ritiro dalle scene. La rinascita, però, è arrivata con “Hospital Handshakes”, disco nel quale ha raccolto undici brani, prodotti da Chris Walla dei Death Cab for Cube e alla cui realizzazione hanno preso parte alcuni musicisti della scena di Seattle tra cui il fratello Cody alla chitarra. Si tratta di brani caratterizzati da un songwriting diretto, vibrante di urgenza comunicativa, con arrangiamenti che affondano le loro radici in un rock chitarristico serrato ed energico. Durante l’ascolto si spazia dall’indie rock dell’iniziale “Boxcutter”, al rock energico di “The The Hereafter, passando per le aperture pop della title-track e le atmosfere rarefatte di “Royal” fino a toccare il blue collar con l’intensa “WhiterockyKnuckles”. Non manca qualche incursione nel punk più melodico come nel caso di “Rumi” e “A New Son”, o nella canzone d’amore (“Sawdust & Shavings”, “This Is My Work”, ma il vertice del disco arriva nel finale con la ballata folk “The Finish Line”, per sola chitarra ed armonica, che rappresenta il commiato più giusto per un disco che segnerà certamente una fase nuova nel percorso artistico di Rocky Votolato. 

Old Man Luedecke – Domestic Eccentric (True North/I.R.D., 2015)
Era il 2003 quando, lavorando ad uno speciale sulla scena musicale canadese, ebbi modo di ascoltare per la prima volta Chris Luedecke, meglio noto come Old Man Luedecke, banjo player e cantautore di Chester, Nova Scotia dalle radici ben salde nella musica old time. Ascoltando il suo primo album “Mole In the Ground” mi colpì il suo songwriting che, abbracciando le strutture e gli stilemi del bluegrass, riattualizzava la tradizione cantando la contemporaneità dei nostri giorni. Da allora Old Man Luedecke ne ha fatto di strada, mettendo in fila una corposa discografia tra cui spiccano certamente i più recenti “Tender Is The Night” e “I NeverSang Before I MetYou” usciti per la True North, etichetta canadese di bandiera. A distanza di un anno da quest’ultimo lo ritroviamo con “Domestic Eccentric”, album nel quale ha raccolto quattordici brani, incisi nella sua casa nei boschi della Nova Scotia, e con la partecipazione di Tim O’Brien. Si tratta di una sorta di diario domestico che raccoglie le esperienze di vita familiare, vissuta accanto alla moglie ed ai figli, tra momenti di felicità e fisiologiche difficoltà. Rispetto agli esordi, dal punto di vista musicale, il suono si è arricchito di altri strumenti come la chitarre ed il mandolino che affiancano il banjo nel tessere le trame dei vari brani. La scrittura, ora senza dubbio meno acerba, ci regala brani che mescolano folk e bluegrass svelandosi un susseguirsi di belle sorprese come nel caso dell’iniziale “Yodelady”, la gustosa “Girl In Pearl Earring” la cui linea melodica è impreziosita dal violino, e l’intensa “Briar And The Rose”. Da segnalare ancora troviamo le gustose “Early Days” e “Wait A While”, mentre il vertice del disco spetta alla splendida “Old High Way Of Love”, che meglio racchiude e fotografa tutte le istanze compositive di Old Man Luedecke.

Dan Israel – Dan (Autoprodotto/I.R.D., 2015)
Si intitola semplicemente “Dan”, il tredicesimo album di Dan Israel, cantautore di Minneapolis con alle spalle un interessante percorso discografico speso tra i Cultivators, con i quali ha pubblicato i pregevoli “Mama Kitchen” del 1999 e “Love Ain’t A Cliche” del 2002, e un serie di dischi come solista. A caratterizzare il suo songwrting è una poetica semplice e diretta, unita ad un sound roots rock in cui si mescolano influenze che spaziano da Bob Dylan a Springsteen fino a toccare Tom Petty e i Wilco, il tutto impreziosito da arrangiamenti accattivanti in cui spicca l’immancabile dodici corde jingle-jangle. Inciso, presso gli studi Mattson's Sparta Sound nel cuore dell’Iron Range, con il contributo di David J. Russ alla batteria, Mike Lane al basso, e James Tyler O'Neill alle tastiere, l’album vede la partecipazione di diversi ospiti chiamati ad impreziosire le varie tracce e tra cui spicca Dave Boquist dei Son Volt. Aperto da quel gioiellino che è “Winter Is Coming”, il disco entra subito nel vivo con “Be With Me” in cui spiccano la cantante dei Twin Cities Katie Gearty alle armonie vocali e la tromba di Paul Odegaard, e le gustose “Can’t Believe It” e “Two Bright Stars”. Durante l’ascolto a brillare sono la radiofonica “You Don't Love Me Anymore” che si giova del contributo di Adam Levy degli Honeydogs alla chitarra e Bethany Larson alla voce, il jangle-pop di “Lonely Too” con la dodici corde in bella evidenza, e la ballata roots rock “Try And Let You Solitaire” che suggellano un disco di puro artigianato rock. Per cultori certo, ma non solo. 

Sean O'Brien and His Dirty Hands - Risk Profile (First Cold Press, 2015)
Ben noto nella scena indipendente della West Coast per i suoi trascorsi con band di culto come True West, Denim TV, e The Mariettas, Sean O’Brien ha intrapreso da qualche anno un interessante percorso come solista, mettendo in fila cinque album, spesso affiancato dalla sua band, His Dirty Hands. Proprio ad uno storico collaboratore di questo gruppo, Jeff Kane, è dedicato “Risk Profile”, sesto album a proprio nome, nel quale ha raccolto dodici brani, prodotti a quattro mani con Matt Boudreau, ed incisi con diversi ospiti come Greg Lisher dai Camper Van Beethoven, Damon Wood degli Engine 88 e Tom Hofer dai The Leaving Trains. L’ascolto svela un tagliente sound rock in cui confluiscono echi di punk, folk e psichedelia come nel caso dell’iniziale “Rehabilitated (I Want You)”, o ancora delle divagazione nell’alt-country di “Final Say” e “How I Hate that Hand”, tuttavia il vertice del disco arriva con il trittico finale "Painted On Glass”, “The Sugar Will Do You In” e “Blind Advantage”, nelle quali è emerge tutta l’energia dei Dirty Hands. “Risk Profile” è un disco onesto e sincero che non cambierà certo la storia del rock, ma riflette tutta la passione e l’amore per la musica di Sean O’Brien.

Ron Pope & The Nighthawks - Ron Pope & The Nighthawks (Brooklyn Basement Records, 2016)
Cantautore originario della Georgia e con all’attivo cinque album, Ron Pope vanta uno zoccolo duro di fans su internet che lo hanno premiato con milioni di ascolti sulle piattaforme Spotify, YouTube e Soundcloud. Le strade del rock sono però infinite e, così, piuttosto che sedersi sugli allori, Pope approda ad un nuovo corso per la sua carriera tenendo a battesimo una backing band nuova di zecca, The Nightwaks con i quali ha inciso il disco omonimo, le cui session sono state oggetto del documentario “One Way Ticket”. Registrato tra la Georgia, la Louisiana e New York,  con la produzione dell’esperto Ted Young, il disco raccoglie undici brani dal taglio southern-rock, dal grande potenziale radiofriendly e perfetti per le infuocate performance dal vivo del combo. Durante l’ascolto a spiccare sono l’iniziale “Southern Cross”, la torrida “Ain’t No Angel” in cui ritornano alla mente certe pagine dei Lynyrd Skynyrd, e la trascinante "Hell or High Water” con i fiati a guidare la linea melodica, tuttavia il vertice del disco è da rintracciare negli episodi di taglio più cantautorale ovvero la pianistica “Leave You Behind” e l’acustica “Hotel Room” nelle quali emerge con maggior forza tutta l’onestà intellettuale alla base del songwriting di Pope.

Alectro – School Of Desire (Blue Rose Records/I.R.D., 2015)
Il progetto Alectro nasce dall’incontro tra il polistrumentista e cantante Steve Kirkman ed il bassista e produttore Jeff Eyrich, due musicisti di grande esperienza, con alle spalle un solido background artistico fatto di prestigiose produzioni, collaborazioni e tanti concerti, ed accomunati dalla passione per il twang di Duane Eddy, gli spaghetti western ed la musica surf sixties. Ritrovatisi negli studi newyorkesi di Kirkman, i due musicisti hanno cominciato a dare forma ad un disco in coppia, partendo da alcuni brani originali composti in un ampio spazio temporale che va dal 1991 ad oggi, e con l’aggiunta di alcune riletture d’eccezione. E’ nato così “School Of Desire”, album nel quale gli Alectro hanno messo in fila undici brani, le cui radici sonore sono da rintracciare nel gustoso intreccio tra country-western e rock vintage, il tutto colorato da tastiere e solide ritmiche. L’ascolto rivela un disco che avrebbe spopolato negli anni Ottanta e forse un po’ fuori tempo massimo, tuttavia è innegabile il fascino di brani come l’iniziale “The Debt” che con le sue sonorità mexican sembra essere uscita da un disco di Stan Ridgeway, o di quel gioiellino che è “Take Me to The Highway”, o ancora delle pregevoli “Shining Star” e di “Whisky Water”. A completare l’album sono la fascinosa ballata “Cross And The Switchblade”, lo strumentale “Sunsetat County Line” e le riletture di “Hard Travelin'” di Woody Guthrie e “Tobacco Road” di John D. Loudermilk. 



Salvatore Esposito
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