Babel Med Music, Dock des Suds, Marsiglia, 17-19 marzo 2016

Il mondo che approda ai Dock des Suds marsigliesi è fatto di professionisti venditori di concerti, direttori artistici, delegati, musicisti, giornalisti e operatori culturali che durante il giorno affollano gli stand, prendono parte a speed-meeting per fare collimare offerta e domanda di musica live, si scambiano biglietti da visita e materiali promo, prendono parte a convegni, incontri formali e meno informali (gli immancabili aperò). La sera la fiera-mercato diventa festival, gli addetti ai lavori e il pubblico pagante marsigliese si ritrovano, gli uni accanto agli altri, agli showcase degli artisti che in 45 minuti provano a convincere chi è alla scoperta di nuovi talenti per i festival world e chi , da cultore animato da curiosità e passione per le musiche del mondo, cerca stimoli dalle sonorità meticce che si sprigionano dai tre palchi. I dati della tre giorni di forum, che ha riempito i vecchi magazzini portuali, diventati da un decennio cuore pulsante di una world music di gusto francese, parlano di 15.000 presenti per la  trentina di concerti programmati. Nelle interviste con la stampa locale, i due direttori artistici, Bernard Aubert e Sami Sadak, esprimono soddisfazione per questa dodicesima edizione, che nei convegni del mattino ha messo a confronto gli operatori sulla questione rifugiati e su quanto sia possibile offrire loro in termini di opportunità musicali: dalla raccolta di strumenti alle orchestre di profughi. Si è parlato, ancora, di diritti culturali e di patrimonio immateriale, sono stati assegnati riconoscimenti ad artisti e dischi, sul piano della promozione culturale locale c’è stato un focus sui festival della Scozia. 
E qui ci viene da riflettere su quanto la nazione britannica o la Catalogna siano ancora modelli di riferimento per la promozione musicale, e quanto su questa scia si sia posta da anni la Puglia, affidandosi a Puglia Sounds (presente in grande forza alla fiera) e quanto altre regioni italiane altrettanto musicali (Sardegna, Campania, Umbria solo per fare qualche esempio) potrebbero fare. Tra le altre iniziative dell’edizione 2016 c’è stata anche un’apertura verso i bambini con eventi a loro riservati. Invece, evento consolidato sono gli “Schermi di Babel”, rassegna di film, purtroppo dislocata quest’anno fuori dall’area fieristica. Da Giovanna Marini (“Giovanna Marini. La Voix des Invisibles” di Desideri/Argentino) alla dinastia di musicisti cretesi Xylouris (ritratti nell’intrigante “A Family Affair” di A. Aristomenopoulou, come mi ha raccontato il collega Jacopo Tomatis), dai sogni di quattro musicisti drusi renitenti alla leva (“Quatuor Galilée” di K. Dridi) alla resilienza di un’orchestra rom di Bordeaux (Chakaraka”) e una celebrazione della carriera di Miguel Poveda filmata da P. Ortiz. Per quel che riguarda il piatto forte della fiera-festival, che è la musica suonata, diciamo che, pur “non avendo visto la luce” in questa edizione di Babel Med, non ci siamo certo annoiati “Ascoltando il mondo” (così come recita lo slogan del forum marsigliese), spinti dal desiderio di seguire il maggior numero di eventi live, pur non rinunciando del tutto alle piacevolezze della città focose. 
Va detto che – come sempre – alcuni degli appuntamenti più importanti sono stati ospitati nel tendone chiamato Chapiteau, che penalizza il suono e si fa notare anche per il pessimo uso delle luci (il kanonaki dell’orchestrina di Marìa Sìmoglou si nebulizzava sotto fari rossi sparati sul pubblico, tanto per fare un esempio). Ciononostante, qui si è visto all’opera l’intimismo folk-blues-pop cantautorale apolide di Alejandra Ribera. Bene anche gli scozzesi Breabach, che affiancano cornamuse delle Highlands, violino e chitarra al tocco smooth e swingante del contrabbasso: le voci non sono di quelle che fanno breccia nel cuore, ma come suono d’insieme il loro set strumentale si colloca su livelli alti. Avrebbe meritato un’altra cornice il mondo rebetiko evocato dalle canzoni di Smirne dell’ensemble di María Sìmoglou (nay, kanonaki, lafta, sazi, lyra, percussioni e voci), greca residente in Francia. Il loro recente disco “Minóre Manés” è una chicca da non perdere. Ha bisogno di maggiore dinamismo il progetto multinazionale al femminile La Nuit d’Antigone, mentre la nuova voce capoverdiana di Elida Almeida, scuderia Lusafrica, si erge padroneggiando con vibrante amabilità le sue canzoni dai contorni funky e pop sposati ai ritmi isolani. Ancora di voci si deve parlare per riferire di Ricardo Ribeiro, poco più che trentenne, voce passionale di espressione fadista in formazione classica. Si prende la sua dose di applausi la band La Pegatina, portatori di rumba urbana barceloneta, ascrivibile alla voce ‘déjà-vu’. Consensi unanimi dal folto pubblico del sabato sera per gli unici italiani presenti a Babel, i Kalàscima, «catapultati» – come sottolineano nell’intervista raccolta nel pre-concerto – direttamente dal South Bay Southwest texano, «una città in pugno alla musica con strade chiuse dove si svolgono esibizioni live, con band di tutti i tipi, per un pubblico giovane»
Come nel loro recente album “Psychedelic trance tarantella”, i salentini mettono in campo un compatto sestetto di percussioni, organetto, bouzouki, fiati (zampogna molisana, ciaramella, doppi flauti calabresi), basso ed elettronica. Ancora, rimarcano che il loro mischiare strumenti tradizionali e ritmica rock ed elettronica può essere «spiazzante per il pubblico adulto, che non è il target sui cui abbiamo puntato. In realtà, la nostra musica arriva a tutte le età, è trasversale, apprezzata anche da parte di chi non è affascinato dalla matrice popolare, ma è abituato ad ascoltare il rock, l’elettronica e il prog». I Kalàscima – come accade solo in Italia – sentono quasi il dovere di giustificare la loro scelta estetica eterodossa, mettendo l’accento sul fatto che, per quanto siano ancora giovani, hanno suonato musica, diciamo, in veste tradizionale per molto tempo e assimilato una parte del repertorio di cui apprezzano le sfumature e le ‘stonature’, ma sono determinati nell’affermare che «ha più senso suonare musica nel nostro modo che fare musica di riproposizione, che significherebbe inscatolare, mettere la tradizione in una teca, facendola morire». E insistono: «Contaminandola a nostro modo, conserviamo il linguaggio della musica popolare del nostro territorio, non soltanto usando gli strumenti, ma scrivendo anche testi nuovi sui moduli tradizionali, come facevano i cantori più innovativi». Non di sole parole si tratta, perché il set di Kalàscima è stato molto tirato ed energico ma dosato, con cambi ritmici e progressioni armoniche che sorprendono, timbri efficaci (il valore aggiunto dei fiati etnici), sponda elettronica che si combina con gli strumenti acustici, spunti world-pop e voci convincenti. Cambiando scena, ci spostiamo nella sala Cabaret, che accoglie concerti di dimensione più raccolta. 
La maggior parte di loro lascia il segno, sono i ‘coup de cœur’ di Babel. Come il virtuosismo visionario e le invenzioni della coppia David Peña Dorantes (piano) e Renaud Garcia-Fons (contrabbasso), che esplorano i modi del flamenco con due strumenti non immediatamente riconducibili a quel mondo sonoro. Notevole il progetto Sirventés, con Manu “lupo bianco” Théron, autorevole ed esemplare voce del canto marsigliese, fondatore dei Lo Cór de la Plana, in compagnia del connazionale Grégory Dargent (ûd e arrangiamenti) e del palestinese, residente a Lione, Youssef Hbeish (percussioni). Il trio rilegge il sirventese costruendo un ponte tra passato e presente, mettendo insieme geografie e linguaggi differenti (rock, modi mediorientali e improvvisazione). Fascinosi anche i percorsi diasporici costruiti dall’armeno Verdan Hovanissian (doudouk) e dal turco Emre Gültekin (saz e tambor), esponenti di due potenti civiltà musicali, entrambi di residenza belga, in quartetto con contrabbasso e percussioni, e dai tre fratelli giordano-palestinesi residenti in Francia del Khoury Project (quanun, oud e violino), che si pongono a cavallo tra jazz e tradizione mediorientale. Meno incisivo delle attese è stato il raccolto set del brasiliano Tiganà Santana. La coppia femminile coreana percussioni e yanggum delle Korean Percusion Duo apre squarci evocativi sul paese orientale, che da anni investe molto sulla propria musica d’arte tradizionale e su quella popolare. 
Sul versante più ibrido, i bretoni Turbo Sans Visa giustappongono in maniera originale immagini, tempi di danza bretoni, ritmi balcanici e pulsioni dance floor, facendo turbinare il flauto traverso di Gurvant Le Gac, le manipolazioni sonico-visuali DJ WonderBraz e di VJ Badgreen, il rappato di K-Smile, il canto di Marion Gwenn e la voce antica dell’ospite Eric Marchand. Veniamo alla Salle de Sucres, la scena più ampia per capienza, che ospita i live act più caldi del défilé di Babel, dove si sono imposti gli algerini Djmawi Africa; è un combo solido fatto di fiati, chitarra elettrica, guembri e all’occorrenza kora, che fonde chaabi e proiezione rock, prog, funk e ska. Dal vicino Marocco, invece, i Ribab Fusion portando in dotazione un ribab elettrificato, ma i loro riff rock sono più cliché che sostanza. A ogni buon conto, ci si fa prendere dai Temenik Electric di “Inch’ Allah baby”, energici più che mai, anche se pure loro percorrono una china rock di due decenni fa. Risplendono per grinta e freschezza i maliani Bamba Wassoulou Groove (hanno pubblicato “Farima” per Label Bleu nel 2015), che allineano la bella voce di Ousmane Diabté, tre chitarre (bluesy, torride e ipnotiche), basso, batteria e percussioni. I classici scritti dal compianto chitarrista Zane Diabaté e le nuove composizioni in stile bambara del percussionista Bamba Dembélé mietono ampi consensi di pubblico e critica. 
Da parte sua, la pattuglia francofona d’oltremare non svetta del tutto. Dalla Reunion, Saodaj propendono per un maloya che si apre al mondo, ma non è sempre irresistibile, il ragga antillano di Paille fa ballare il pubblico. Tant’è. Dalla Guadalupa i 7son @ To riportano in pista la tradizione ancestrale del gwo ka. Non sfondano del tutto neppure i venezuelani La Gallera Social Club, laddove gli irresistibili marpioni turchi Baba Zula ci danno dentro con un rock-psichedelico a tinte anatoliche, centrato sul saz elettrificato, instancabili nella loro propulsione ipnotica, con Murat, leader del gruppo del Bosforo dal baffo spiovente, che a un ceto punto si piazza in mezzo al pubblico per un interminabile solo. La notte di Babel viaggia sulle frequenze dei DJ set, tra i quali annotiamo (ricorrendo ancora all’expertise di Jacopo Tomatis) le vibes dell’algerino-marsigliese Imhotep e il bel sentire messo su dal portoghese Rocky Marsiano, che rimescola frastagliati ritmi afro-lusitani e brasiliani ricomponendoli per la pista. 


Ciro De Rosa

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