Speciale Arc Music: Saor Patrol, The Young Folk, Jaume Compte Nefas Ensemble, Manuel Diogo

Tra le produzioni della Arc Music abbiamo selezionato quattro album che rappresentano, in modi e con esiti differenti, lo scenario di riferimento di questa importante casa di produzione internazionale. I lavori di cui parliamo in questa breve rassegna si inquadrano nel vasto panorama della world music, ma corroborano l’idea migliore che ne è alla base fin dagli inizi, il fatto cioè di aprire non solo alle contaminazioni, ma a un nuovo nervo di idee, in una prospettiva differenziata e allo stesso tempo coerente. Una prospettiva che secondo noi deve puntellarsi di “conoscenze”, cioè di avvicinamenti critici, di studi, di analisi. Una prospettiva orientata anzi proprio dall’individuazione di combinazioni plausibili, dalla sovrapposizione di linguaggi compiuti, strutturati, ed elementi significanti. Una prospettiva che, proprio perché così determinata, rinnovi costantemente il profilo della world music, spingendola fuori dalle categorie più strette e aprendola alle interpretazioni più sperimentali.

Saor Patrol – 15 Year Anniversary Edition, Total Reworx Vol. 1 (Arc Music, 2015)
Saor Patrol è il nome di un collettivo scozzese di cinque elementi. La loro produzione – che qui presentiamo attraverso una raccolta di undici brani dal titolo “15 Anniversary Edition, Total Reworx Vol. 1”, organizzata in occasione del quindicennale della band – è stata spesso ricondotta a categorie come il tribal rock, il celtic rock, fino allo Scottish medieval rock. Può essere d’aiuto far riferimento a queste categorie, di possiamo cogliere gli elementi più descrittivi. E, soprattutto, più direttamente riconducibili a un ambito di produzione nel quale convergono alcuni elementi espressivi tradizionali e una forma di interpretazione contemporanea, legata a strumenti come la chitarra elettrica. La raccolta (inutile dirlo) fa luce proprio sulle caratteristiche più distintive della band, come il legame profondo e articolato con lo scenario sonoro tradizionale, ma anche con uno scenario culturale che inquadra (lo si può leggere nel sito e in tutte le notizie che riguardano i Saor) diverse iniziative volte ad affermare una sorta di carattere nazionale, evidentemente scozzese, del repertorio proposto e dei riflessi che questo emana. D’altronde, nonostante l’assetto generale della band sia molto d’impatto, molto moderno e anche innovativo in alcune soluzioni esecutive, l’elemento principale rimane quello evocativo. Attraverso il quale si produce una specie di ascensione a un livello epico, che va oltre la nostra contemporaneità ma anche la storia musicale locale. In tutti i brani lo strumento principale sono le pipes (suonate da Charlie Allan), inserite nella struttura secondo la reiterazione di soluzioni semplici anche se non scontate. In questo senso sono da interpretare le forme che assumono i brani in scaletta, nei quali le pipes introducono il tema, che si sviluppa con variazioni sia ritmiche che melodiche sulle percussioni (tre dei componenti della band suonano tamburi e timpani, producendo un andamento ritmico caratterizzato da un suono sordo e costante) e, in parte minore, sulla chitarra (suonata da Steve Legget). Infine, volendo spendersi in un bilancio, si può dire che la forza dell’evocaizone è maggiore di quella dell’interpretazione in chiave moderna o tradizionalmente world. E questo coincide perfettamente con l’obbiettivo principale dei Soar Patrol, membri attivi e volontari del Claranald Trust for Scottish, un’organizzazione riconosciuta dalla Scottish Charity volta alla promozione della cultura e del patrimonio espressivo attraverso l’educazione e l’entertainment.

The Young Folk - The Little Battle (Pixie Pace Records by Arc Music, 2014)
Ci spostiamo a Dublino per parlare di “.The Little Battle”, album di esordio di The Young Folk. Si tratta di un lavoro interessante sotto molti aspetti e che si configura come aperto, cioè ricco di aderenze a diversi stili musicali, ricondotti a una scrittura moderna e dinamica. “My friends”, il brano di apertura, è un buon esempio del sound, dell’organizzazione e dello stile della band. È una ballata molto melodica sostenuta, nella prima parte, da un arpeggio sincopato di chitarra acustica e, soprattutto, da una linea vocale armonizzata in stile folk tradizionale. Questo andamento si trasforma, nella parte centrale del brano, in un flusso più ritmato, nel quale si definisce il timbro della band, attraverso il violino e le corde. Le influenze più care alla band emergono nei brani più “trasversali”, nei quali si abbracciano non tanto sonorità contemporanee, ma piuttosto un modo di organizzare gli strumenti (fiati, corde, percussioni e voci) che rimanda a strutture generali più pop che folk. In questo senso “Biscuits” può essere molto rappresentativo. L’andamento è brillante e sostenuto, la linea della batteria si definisce sin dall’introduzione e la linea melodica delle voci riecheggia soluzioni molto british (nelle relazioni tra le strofe e il ritornello, nelle pause, nelle enfasi in coincidenza con gli intermezzi musicali degli archi). Uno dei migliori in scaletta e senza dubbio “Letters”, un brano intimo e posato, nel quale la voce si adagia fluida sulla linea melodica del piano. Pur mantenendo un incedere delicato e morbido, gli strumenti integrano gradualmente l’andamento, fino a intrecciarsi in una sospensione musicale molto piacevole, nella quale si distinguono più degli altri il violino e il mandolino. Per concludere, se sono evidenti le influenze della cultura espressiva folk più tradizionale (sopratutto nelle costruzioni melodiche e nell’organizzazione delle voci), la prospettiva di The Young Folk è ben più ampia e volta a creare un insieme equilibrato di più linguaggi. Senza dubbio lo scenario acustico (che rimanda a una forma di cantautorato un po’ più espansa di quella a cui fa riferimento la band) rimane in primo piano, ma le idee accennate in questo primo disco sono lungimiranti. Ce lo confermano anche alcune notizie sulla lavorazione del nuovo album, che indicano la volontà del gruppo di elaborare maggiormente il “folky sound” a favore di un linguaggio più sperimentale e (forse) elettrico.

Jaume Compte Nafas Ensemble – Tariq (Arc Music, 2014)
Dichiaratamente “mediterraneo” l’album del compositore e polistrumentista catalano Jaume Compte. Si intitola “Tariq” e si inserisce di diritto in un’ottima world music: leale, ispirata, aperta, ricca di suoni e riferimenti a scenari musicali ed espressivi di ampio respiro. L’elemento centrale è il mondo arabo, o meglio la musica araba, presa a riferimento di un progetto sonoro e artistico molto trasversale. E che poggia saldamente su una strumentazione ampia e su arrangiamenti di qualità sopraffina. Eccetto “Espiral”, “Q-Abyl”, “Miratge” e “Absència”, in cui compaiono come coautori Francisco Javier Vich Cadarso, Luis Escorcia, Javier Suarez, Miquel Vicens Sastre e Pere Quart, i restanti dieci brani in scaletta sono di Jaume Compte. Il quale suona chitarra acustica e spagnola, oud, bouzouki, ebow, crate, tamburello, riq, kárkares, darbouka, udú, shakers, cacichi. Per il resto lo spettro sonoro è definito attraverso apporti volti ad arricchire e innovare un flusso musicale sognante, inquadrato dentro arrangiamenti estremamente curati e definito dentro un percorso che attraversa uno sviluppo lineare, dalla prima all’ultima traccia. In questo senso la selezione degli strumenti è fondamentale: violino, viola, violoncello, katmanché, contrabbasso, accordion. E ci trasmette, senza sbavature, le linee guida di un progetto calibrato in egual misura sullo studio del paesaggio sonoro e delle forme espressive riconducibili al mondo arabo, da un lato, e sull’ispirazione “aperta” di Compte, che tiene sempre un piede nelle più diverse culture espressive e musicali (come quella balcanica, affrontata in “Voda” del 2013, o quella classica occidentale e indiana, raccolta nell’album del 2006 “Alè”). Tra i brani migliori vi sono “De Pedra” e “Lila”. Sono entrambi pezzi strumentali, accomunati dall’individuazione di melodie e sviluppi armonici non scontati. In “Lila” la “musica d’ambiente”, un’insieme sfocato di voci, fa da sottofondo a un alinea melodica definita con gli archi e sostenuta da percussioni marcate ma soffuse. “De Pedra” si affida, nell’incipit, a qualche fraseggio di chitarra classica, che introduce un andamento molto ritmico, accentuato e sincopato, nel quale si allacciano le differenti altezze degli archi. L’atmosfera che si produce è tesa e allo stesso tempo rarefatta: si risolve solo nella seconda parte del brano, quando l’accordion – prima di un finale asciutto, nel quale torna in primo piano anche la chitarra – stringe tutti gli altri strumenti in una melodia più distesa e brillante.

Manuel Diogo – Music of Angola (Arc Music, 2015)
L’ultimo album di questa rassegna è “Musico of Angola” di Manuel Diogo, cantante e polistrumentista nato nel 1969 nella repubblica Democratica del Congo. Questo album, a differenza di quelli trattati fin qui, si inserisce in un progetto di world music classica, volto a selezionare alcune delle espressioni più rappresentative della musica di questa area. In quest’ottica le dieci tracce della scaletta sono state selezionate nei repertori tradizionali (“A chamada vai haver” e “Torrent d’amour”) e in quello di Diogo, considerato una delle figure chiave della tradizione musicale locale. Una tradizione che, a ben vedere, si configura, in special modo attraverso i brani di Diogo, in relazione a una matrice sufficientemente differenziata. Una matrice che ha assorbito, seppur in gradi diversi e probabilmente attraverso diversi processi di riproposta (di cui fa ovviamente parte anche questo album), una relazione alquanto equilibrata tra la narrativa di tradizione orale, la strumentazione tradizionalmente utilizzata anche in occasioni rituali e gli apporti di autori e musicisti. Se i brani riflettono pienamente questo equilibrio, io credo che la stessa considerazione valga per la costruzione generale dell’album. Nella misura in cui “Musico f Angola” si configura anche come una sorta di guida per intenditori, in cui ogni brano è presentato con una breve introduzione e una sezione speciale è dedicata agli strumenti tradizionali come ngoma, hungu, dikanza, pwita e marimba. Entrando nei contenuti, tutti i brani richiamano l’atmosfera mista di ritualità, impegno sociale (e politico) e ritmo, allacciati con una selezione sapiente e convincente di ritmi “melodici” (si pensi al suono del balafon o dell’hungu). Tra i brani più interessanti vi è “Moninga yaka na yesu” in “typical upbeat Angolan style”, come si può leggere nelle note di copertina. Oltre alla tram di cori che imperversano lungo tutto il brano, la chitarra elettrica riesce a ricalcare la brillantezza delle percussioni con brevi incursioni in alternanza alla voce. Nella parte centrale del brano la voce di Diogo emerge e trascina gli altri strumenti, fino a infilarsi nel finale affidato ai fiati e qualche nota stridente e secca di chitarra elettrica. 



Daniele Cestellini
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