Martedì 20 ottobre, nell’Aula Magna della Sapienza completamente esaurita, la Follia – ritratta da Savall attraverso una viola da gamba al posto del pennello e il suo Hespèrion XXI in luogo dei colori – prende vita e si sostituisce alle “Arti e le Scienze” dipinte sul muro di quella stessa sala ottant'anni fa da Sironi (e oggi in restauro), inaugurando la 71ª Stagione dell’Istituzione Universitaria dei Concerti (IUC). Anche in questa serata romana l’obiettivo di Savall, come da cinquant’anni a questa parte, è quello di far conoscere al mondo meraviglie musicali perdute, o di restituire a quelle già note lo spirito interpretativo originario.
Questa volta tocca alla “folía” e alla sua variante esotica il “canario” essere protagoniste. La prima è un’antichissima danza, la cui incerta genesi (forse portoghese) si perde nella notte dei tempi. Come il nome stesso lascia intendere, le sue caratteristiche originarie erano la sfrenatezza e la vivacità tipiche del folle, attenuatesi poi con l’ingresso nelle corti nobiliari in favore di un andamento più lento e solenne. Sintetizzando, potremmo definirla come un’intelaiatura base, sulla quale i musici improvvisano un gran numero di variazioni e di contrappunti d’alto virtuosismo. Eppure, contrariamente alla sua apparente semplicità, essa è radicata e pervade la tradizione musicale europea (e non solo). Attraverso autori cinquecenteschi ispano-napoletani, dalla penisola iberica giunge a Roma e a Firenze, per poi trasferirsi in altre zone del continente e oltreoceano. Sulla stessa rotta, ma con percorso inverso – dal Nuovo Mondo all’Europa – giunge dalle isole Canarie un altro tipo di danza simile alla precedente, la “folía canaria” o “canario”, cui si accompagna un inevitabile rimescolamento dell’una con l’altra.
La scaletta del concerto segue pienamente questi due binari, quelli dell’evoluzione dinamica e della diffusione geografica. Basta il brano d’apertura “La Spagna” di Diego Ortiz perché l’Aula Magna si trasformi nella gran sala del viceré di Napoli, Fernando Álvarez de Toledo, alla metà del Cinquecento. Allo spettatore è già chiaro che non sarà un recupero filologico per palati raffinati, né tanto meno un soffiar via naftalina, ma un vero rapimento estatico nel passato ad opera di quella magica e sconvolgente unione sonora di viola da gamba, clavicembalo (di Luca Guglielmi), chitarra barocca (di Enrike Solinís), percussioni (di David Mayoral), violone (di Xavier Puertas) e arpa barocca spagnola (di Andrew Lawrence-King). L’effetto si amplifica quando, prima di eseguire “Fandango” di Santiago de Murcia con arpa, nacchere e chitarra in tutto il loro sensuale fascino, sul palco vengono citate le parole di Casanova: «Ciò che mi entusiasmò in questo spettacolo, fu, verso mezzanotte, quando al suono dell’orchestra e al rumore dei battimani le coppie cominciarono la danza più pazza che si possa immaginare. Era il famoso fandango», con l’affascinante e divertente chiosa finale «non c’era donna che potesse rifiutare più nulla ad un uomo con il quale avesse ballato il fandango!». Sebbene Savall abbia sempre dimostrato una particolare attenzione al patrimonio musicale ispanico e mediterraneo, la sua fama di ricercatore onnivoro è testimoniata dalla maestria con cui, provvisto di viola celtica, interpreta a inizio seconda parte alcuni brani tradizionali irlandesi e scozzesi (“Regents Rant” e “Lord Moira's Hornpipe”). Più vicine all’atmosfera standardizzata del recital pianistico/cembalistico sono le “Partite diverse di Follia” di Bernardo Pasquini eseguite dal pur bravissimo Luca Guglielmi al clavicembalo, ma il loro cozzare con quanto le seguirà è forse troppo evidente. Non ci si lasci ingannare dal lento incedere iniziale di “Diferencias sobre las Folías” di Antonio Martín y Coll, affidato a viola da gamba e chitarra, in quanto la presenza delle nacchere è fin troppo sospetta.
E infatti, dopo forse un minuto, accade qualcosa di fenomenale: il tempo accelera, entrano tutti gli strumenti e le “diferencias” si fanno altalenanti, passando dal dolente al veloce, fino al momento in cui il suono diventa vorticoso e trascina emotivamente il pubblico che risponde, o forse completa il brano, con uno scrosciare di applausi. Da segnalare anche l’eleganza e l’incredibile malinconia di “Glosas sobre Todo el mundo en general” di Francisco Correa de Arauxo, probabilmente il più importante compositore e organista andaluso del ‘600, affidata a organo, viola da gamba e arpa. Ancora una volta Savall rianima un brano fra i più popolari del suo tempo (“Todo el mundo en general” era una canzone religiosa con testi del poeta andaluso Miguel Cid), poi scomparso nel buio dell’oblio. Il finale della serata è affidato alla “Gagliarda Napolitana” dell’italiano Antonio Valente, anche se al pubblico vengono regalati due bis, il secondo dei quali da Savall presentato come «Variazioni su una melodia popolare latino-americana, di anonimo, da un manoscritto di Trujillo del 1785». Purtroppo si torna alla grezza realtà quando, riaccese le luci in sala, il tuo giovane vicino di posto ti domanda: «Tutto molto bello, ma la Roma che ha fatto?».
Guido De Rosa
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