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Fingerstyle, tra classicismo e tradizione popolare: ritorna la limpida voce chitarristica di Enrico Negro
Nel panorama della chitarra fingerstyle italiana, Enrico Negro, originario della canavesana Leinì, con formazione classica e diploma in chitarra al Conservatorio di Alessandria, è da considerare un artista di punta per sensibilità e versatilità, per il suo percorrere geografie sonore che attraversano tempi e luoghi. Negro ha all’attivo una lunga attività artistica, non riducibile a poche righe. Tanto per rendere l’idea, si passa dal lavoro con il trio chitarristico Vivaldi, con cui ha inciso album dedicati alla chitarra classica contemporanea, alla creazione, intorno alla metà degli anni Novanta, dell’ensemble Charta De Mar. Dall’impegno diretto e alle collaborazioni nei progetti di ambito folk e tradizionale più innovativi dell’area alpina occidentale (Compagnons Roulants, Le Vijà, Ensemble del Doppio Bordone, Dona Bela, Tendachënt, Trobairitz D’Oc, Edaq Ensmeble) a quelli internazionali, in cui ha suonato accanto a Maurizio Martinotti, Renat Sette, Paul James, Lucilla Galeazzi e Toni Torregrossa. Enrico Negro è un autore che non ha smarrito il calore melodico, la ricerca solistica sulla chitarra acustica con corde metalliche non involuta in estetismo formale lo ha portato a sviluppare un suono omogeneo pur attingendo a fonti e a ispirazioni composite. È appena uscito il suo secondo lavoro solista, “La Memoria dell’acqua”, album interamente di musica italiana, nel quale confluisce un repertorio che copre un arco temporale assai ampio. Rispetto ad altri rinomati chitarristi fingerstyle del nostro Paese, al di là dell’indiscutibile perizia tecnica, si avverte per l’appunto la sua marcata formazione classica. Il musicista piemontese affianca agevolmente melodie rinascimentali e partiture contemporanee, temi popolari e colti, composizioni proprie e canzoni d’autore italiane. Ciò non è causale, è una scelta che riflette gli interessi del chitarrista, del quale stile, tecnica e repertori si sono ulteriormente evoluti rispetto alla prima prova discografica da solista. Nell’intervista che segue, Negro presenta la sua nuova opera, parla dei numi tutelari della chitarra che l’hanno influenzato, degli arnesi del suono utilizzati, dell’influenza del suo Piemonte e di cosa vuol dire dedicarsi alla chitarra acustica in un Paese come l’Italia, dove non è agevole l’attività concertistica per chi pratica questo strumento.
Dieci anni non sono pochi dal precedente album “Rosso rubino” uscito per FolkClub-Ethnosuoni. Quali i passaggi più importanti che ti hanno portato a questo nuovo lavoro per sola chitarra?
In effetti, dieci anni sono tanti, possono però passare velocemente. Dipende dal contesto, dai vissuti. Avrei voluto realizzare molto prima questo disco che rappresenta una sorta di estinzione di un debito storico nei miei confronti, ma per un motivo o per l’altro mi sono sempre trovato a rimandare. In questo lavoro tutti i brani sono frutto distillato di esperienze, vissute sulla pelle, in un periodo piuttosto lungo; rappresentano, con il mio linguaggio, eventi, conquiste, sconfitte, vittorie, perdite, scoperte, mancanze, ma anche e soprattutto conferme (quanto bisogno abbiamo di conferme…), emozioni ed accadimenti che in qualche modo mi hanno permesso di tenere duro, fare il punto della situazione e guardare avanti. Dal 2008, anno in cui molte cose sono iniziate a cambiare in maniera significativa, ho vissuto (e forse ne sto uscendo da poco anche grazie a questo lavoro) una profonda crisi che mi ha portato a rivalutare molti aspetti della vita e della realtà chi mi (ci) circonda. Mi sono fatto un’infinità di domande e per contro mi sono dato davvero poche risposte, imparando nel tempo a farmele bastare. Realizzare questo disco è stato un modo per voltare pagina, rendendo omaggio ad un periodo davvero intenso della mia vita, per poter andare oltre, verso nuovi progetti artistici e nuove esperienze di vita. È stato anche un modo di omaggiare due cari amici che sono andati via piuttosto bruscamente, lasciando un gran vuoto intorno. Devo anche dire che, in questo lungo periodo, non sono rimasto con le mani in mano avendo pubblicato altri sette CD con diversi progetti in cui ero e sono tuttora direttamente coinvolto, a cominciare dai due ultimi lavori di Tendachënt (“La valle dei saraceni” e “Arneis”) fino ai progetti ‘speciali’ di Maurizio Martinotti come Pau i Treva e Mar Mur, dal progetto per tre chitarre e voce dell’Ensemble Sinigaglia (con la splendida Paola Lombardo alla voce), all’esperienza con l’Orchestra Tradalp e infine l’Edaq Ensemble (con il disco “Dalla parte del cervo”), uno dei lavori che mi hanno coinvolto di più in assoluto in tanti anni di attività al servizio della musica.
Utilizzi la metafora dell’acqua che ricorda…
Sì, utilizzo la metafora dell’acqua ricollegandomi alla cosiddetta teoria della memoria dell’acqua, secondo la quale ogni evento, forma o esperienza con cui l’acqua viene in contatto è in grado di lasciare una traccia, una memoria nella sua stessa struttura. Proprio questa memoria permette all’acqua di imparare a modularsi e organizzarsi in maniera nuova a livello energetico… Ovviamente non ci è dato sapere quanto di vero ci sia in questa teoria, ma la trovo affascinante e credo sia un parallelo che ben si adatta anche all’uomo: da ogni esperienza che viviamo usciamo diversi, cambiati, impariamo, o meglio, abbiamo la possibilità di imparare per relazionarci in maniera differente rispetto alla realtà che viviamo. La memoria diventa, quindi, informazione che può contribuire a modulare la coscienza individuale verso nuovi e più affascinanti territori rispetto a quelli ristretti e vincolanti di una quotidianità fatta di abitudini e rituali, credenze e conformismi imposti o ereditati… Così è anche per la musica; questo disco è in gran parte autobiografico, nel senso che molti dei brani registrati hanno rappresentato e rappresentano tuttora un preciso momento della mia vita di questi dieci anni trascorsi…ma al tempo stesso è anche un trampolino di lancio per nuove e differenti esperienze musicali, artistiche e spero anche umane. Ci sono tutte le tue anime musicali in questo lavoro…Assolutamente sì, e non poteva essere diversamente... In primo luogo è un disco di musica italiana, una chitarra italiana e dentro ci ho messo l’amore per la musica antica, per la tradizione popolare Italiana, per la musica colta del Novecento e per la cosiddetta musica d’autore e poi le mie composizioni, che riflettono ovviamente i miei ascolti più disparati. C’è anche un omaggio alla mia passione (poco sviluppata peraltro) per la cucina, con “Methi”, un brano che prende il nome da una spezia (in realtà è il seme del fieno greco) molto usata nella cucina indiana. Insomma, un ricco calderone di scelte musicali e stilistiche differenti a cui ho tentato di dare una coerenza, una visione uniforme, lavorando molto sul suono, con il mio approccio chitarristico che è una via di mezzo tra lo stile classico ed il moderno fingerstyle ed ovviamente lasciando la supervisione, come ultimo giudice, al mio gusto ed alla mia sensibilità musicale molto affine a queste sonorità.
Cosa ti sollecita a rileggere un brano della tradizione popolare? In “La memoria dell’acqua” spazi tra Delfinato, Piemonte e le cosiddette 4 Province.
Beh, in primo luogo sono innamorato della tradizione da alcuni decenni ormai. Quando scelgo un brano è perché mi comunica qualcosa di forte che appartiene alla tradizione stessa, qualcosa di antico, tramandato, radicato, vissuto. Certamente entrano in gioco il mio gusto, la mia sensibilità, per cui la scelta delle melodie ricade su quelle che sento più affini alla mia personalità musicale. Naturalmente tutte le scelte devono fare i conti con l’idioma e la tecnica chitarristica che non sempre va a braccetto con queste melodie, essendo nate e poi sviluppatesi su altri strumenti. C’è anche qui un richiamo alla memoria (non solo tradizionale) perché diversi brani li avevo già affrontati in maniera diversa con band differenti e hanno scandito alcuni momenti della mia vita. L’area geografica che hai descritto fa parte del mio imprinting culturale: sono nato, cresciuto e vissuto in provincia di Torino e ovviamente sento affini queste realtà culturali e linguistiche, suono questa musica da quasi trent'anni, è la mia musica, come lo è la musica ‘celtica’ per un irlandese o un bretone, oppure la pizzica per un salentino. D’altro canto sento affine anche quella frangia più meticcia che si va fortemente affermando per via dell’arrivo di tante persone provenienti da posti più o meno lontani. Abbiamo un fantastico esempio a Torino con il CoroMoro, un gruppo di ragazzi africani che affrontano il repertorio del canto spontaneo piemontese… credo sia semplicemente meraviglioso, un bellissimo esempio di integrazione oltre ad essere una risorsa culturale per un futuro un po’ più sereno, privo di stupidi pregiudizi. Nella mia musica, anche se celate, mediate ci sono influenze africane, arabe, indiane…del mondo insomma. In fondo gran parte della musica che ascolto è quella.
Un altro aspetto interessante del disco è la scelta di riprendere compositori piemontesi…
Sì, questo è un aspetto a cui tengo molto e i due compositori scelti non lo sono a caso. Ermenegildo Carosio (in arte Oisorac) è uno dei tanti compositori cosiddetti minori, piemontesi ed italiani, vissuti a cavallo tra '800 e '900. L’ho scoperto grazie all’amico e collega Bruno Raiteri del Quartetto Tamborini, nonché storico violinista della Ciapa Rusa e di Tendachënt. La sua vasta produzione ha attinto molto ai ritmi di danza della tradizione e in particolare il brano che ho rielaborato per chitarra (l’originale è per pianoforte), dal titolo “Detective Rag”, denuncia da una parte l'attrazione verso la musica che arrivava da oltreoceano - il ragtime appunto - e dall’altra l’interesse verso la musica tradizionale, essendo alla fine dei conti un ritmo di polca.
Quindi, un ragtime/polca del tutto piemontese. Carlo Mosso invece è stato direttore del conservatorio di Alessandria proprio negli anni in cui io lo frequentavo da studente. Un musicista di spicco nell’ambiente musicale colto torinese fino agli anni ‘70. Anche lui – seppure con un approccio rigorosamente colto – ha attinto in maniera significativa al repertorio della tradizione piemontese. Il suo “Omaggio a De Falla”, di cui interpreto i primi due movimenti, è un brano che mi accompagna proprio dagli anni dei miei studi in conservatorio, che ho amato e amo, tuttora, moltissimo.
Come hai detto poc’anzi, hai avuto tantissime esperienze in gruppi, cosa significa per te suonare da solo?
Ho suonato con tantissimi musicisti in molti progetti e credo che la pratica della musica d'insieme sia la più gratificante in assoluto. La possibilità di condividere emozioni, energie, ambizioni, divertimento con qualcun altro è uno degli elementi fondanti della pratica musicale. Detto ciò a volte si può sentire il bisogno di esprimere a fondo la propria essenza, la propria visione, con un linguaggio e con modalità che appartengono solo a te e non sono condivisibili con altri. Suonare da solo è anche molto più difficile ed impegnativo, soprattutto dal punto di vista emozionale richiede uno studio e una preparazione accuratissimi, non solo sotto l’aspetto tecnico-musicale, ma anche e soprattutto dal punto di vista fisico/mentale/emozionale. Quindi c’è un grande lavoro di studio sullo strumento ed un altrettanto grande lavoro di preparazione psico-fisica (io ad esempio pratico lo yoga e l’aikido attivamente) per gestire al meglio la responsabilità ed il carico emotivo di un’esibizione dal vivo. Direi che suonare da solo è un completamento della pratica musicale, un aspetto più intimo, da mostrare solo quando si hanno la forza e l’urgenza comunicativa necessarie.Parliamo degli arnesi del suono: che chitarre hai usato per questo disco e che accordature?Ho utilizzato prevalentemente una chitarra acustica modello Diavoletto Grand Auditorium del liutaio piemontese (di Borgosesia in provincia di Novara) Aldo Illotta, che costruisce strumenti davvero di altissimo livello. Poi in alcune parti ho suonato una fida compagna di viaggio che mi ‘serve’ fin dal 2003: una chitarra classica modello Torres di un altro grande maestro (ed amico) della liuteria italiana, Mario Grimaldi di Trisobbio, in provincia di Alessandria.
Le accordature, a parte la standard che ho usato in diversi brani, derivano perlopiù dall’abitudine di suonare con strumenti della tradizione popolare che hanno un intonazione ‘quasi obbligata’ come la ghironda, l’organetto diatonico e le cornamuse. Negli anni ho imparato che la chitarra si abbina meglio con questi strumenti se accordata in sol o in re, per cui si possono mantenere i bassi di bordone avendo l’opportunità di muoversi liberamente nelle tessiture sovrastanti. Quindi, ho usato le accordature in drop D (DADGBE) e in G (DGDGBE). Il disco l’ho registrato con calma a casa, com’è ormai d’abitudine per tutti i lavori discografici che affronto. È un aspetto del fare musica che mi appassiona e mi coinvolge molto.Ti faccio i nomi di quattro chitarristi: John Renbourn, Pierre Bensusan, Martin Simpson, Soig Siberil. Che mi rispondi?Ti rispondo ringraziandoti e ringraziandoli tutti e quattro, perché loro, insieme a pochi altri (citerei ancora Martin Carthy, Gilles Le Bigot, e Bert Jansch, ma anche Davey Graham, Ian Carr, Chris Wood, Tony McManus e poi John Martyn e Nick Drake naturalmente) hanno inventato un modo, una via diversa e credo duratura di intendere la chitarra. Sono sempre stati e sempre saranno i miei punti di riferimento chitarristici. Non è un mistero che io riconosca John Renbourn come il mio papà chitarristico, la mia musa ispiratrice. L’ho scoperto intorno ai 17 / 18 anni di età ascoltando per caso “Cruel Sister” dei Pentangle ed è stato un colpo di fulmine; da quel momento è cominciato il mio interesse per il folk revival anglosassone e in seguito mi sono accorto che sotto quella proposta, legata ad un preciso momento storico, c’era molto di più. Così ho iniziato a scoprire il folk revival italiano (dalla Ciapa Rusa al Cantovivo, la Lionetta, Baraban, Re Niliu, Musicanova, Anita Anita e così via) e da quello la realtà della musica trad. italiana, che è ancora viva, vissuta e praticata in molte zone d’Italia. Anche qui in Piemonte, in diverse vallate alpine, (soprattutto nella provincia di Cuneo, di tradizioni e cultura occitana) la tradizione del canto spontaneo e della danza popolare sono ancora vivissime e largamente praticate. Per quanto mi riguarda, questi musicisti sono l'essenza stessa della chitarra acustica nel folk (inteso nel suo senso più ampio, nobile e creativo). Ultima cosa, a mio parere Martin Simpson ha il più bel suono di chitarra acustica che abbia mai sentito...Chitarre fuori dal folk? Cosa ti ispira, oggi? C’è davvero tanto lì fuori che diventa quasi difficile parlarne. Adoro il flamenco, la musica africana, la musica araba, il reggae, il canto spontaneo, il canto a tenore, la musica sami... la musica del mondo, insomma. Mi piacciono molto le contaminazioni tra sonorità acustiche ed elettronica (anche se non ho una grande cultura in merito), ma, soprattutto, non ascolto molta musica ‘nuova’ per chitarra, un po’ per pigrizia e un po’ perché tutto questo battere e percuotere oltremisura fino allo stremo (delle orecchie di chi ascolta…) non fa parte della mia dialettica. Mi piacciono, anche se li conosco poco, Jon Gomm e Mike Dawes, che hanno comunque oltre ad una tecnica eccellente anche argomenti validi da proporre; in ambito più classico mi piace molto Roland Dyens e trovo davvero strepitosa una giovane cantautrice americana che sa usare a dovere voce, chitarra e mandolino, che si chiama Sarah Jarosz. Mi piace il country alla Dan Tyminski, mi piace da matti Thierry Titì Robin e continuo ad ascoltare senza sosta tutta la truppa di Crosby (bellissimo il suo ultimo album “Croz”) Stills, Nash e pure Young (oltre i Beatles ovviamente…). Per contro, parlando di musica nuova, di avanguardie, grazie ai due amici contrabbassisti, Stefano Risso e Federico Marchesano, che hanno ideato il marchio Solitunes Records, per cui è uscito “La memoria dell’acqua”, mi sono in qualche misura aperto all’ascolto dell’improvvisazione radicale e ad un modo di fare musica in cui niente è da buttare: gli errori, i rumori, gli scarti…tutto diventa parte di un discorso musicale concreto e convincente, se si possiedono dialettica ed argomenti adeguati.
Nei cosiddetti “Paesi celtici” si sono inventati uno stile chitarristico popolare. Qui in Italia?
Al momento, escludendo le chitarre di tradizione (perlomeno a quanto ne so io) e cioè la chitarra sarda e la chitarra battente, che hanno storia e tradizioni antichissime e consolidate non mi pare che sia accaduto qualcosa di analogo. Voglio dire che non si è creato un movimento di chitarristi interessato a lavorare sul materiale tradizionale in modo da poterne ricavare uno stile, un marchio, un suono riconoscibile. Una chitarra irish, bretone o inglese, la riconosci da un accordo, da una plettrata, un arpeggio. Una chitarra piemontese o marchigiana o emiliana…non so, non mi pare. Io in qualche modo (e lo dico con umiltà) ci ho provato e lo sto facendo tutt’ora. Qualcun altro c'è, ma non siamo in molti (o almeno ne conosco pochi), così al volo, mi vengono in mente Maurizio Verna, un eccellente chitarrista piemontese che conosco bene, il bravissimo Gianluca Dessì di Sassari, chitarrista dello splendido progetto “Amada” oppure Aronne Dell’Oro (su un versante più affine alle suggestione marchiate Nick Drake in versione mediterranea), Claudio De Angeli dei Liguriani. Tutti però (me compreso) mi pare siamo debitori all’imprinting ‘celtico’, senza ombra di dubbio.In un paese dove è difficile suonare dal vivo, che spazio può avere la musica per chitarra di Enrico Negro che, tra l’altro, esce dal circuito trad?Oh oh… in effetti, mi viene un po’ da ridere… non so bene che spazio possa avere la mia musica, c’è da chiederselo e giuro che l’ho fatto… ma la risposta (scontata) ha un importanza secondaria. La cosa importante per me è stata quella di soddisfare il bisogno di comunicare il mio sentire…come verrà accolto poi fa parte di un altro capitolo della storia (certamente di rilievo ma al di fuori di ogni previsione e controllo). Certo, mi auguro possa suscitare un qualche interesse, anche perché è sicuramente una voce fuori dal coro, sia riguardo il circuito trad che quello più strettamente chitarristico. Spero che non accada come ai tempi di “Rosso rubino”: gli ‘addetti ai lavori’ dell’ambito trad /folk mi rimandavano a quelli più specializzati in chitarra acustica e curiosamente questi ultimi mi rispedivano al mittente (anche se non tutti per fortuna!). Non ho la presunzione che il mio lavoro e le mie scelte stilistiche debbano per forza piacere ed essere condivise da tutti, ma auspicherei un po’ più di apertura mentale, o perlomeno di curiosità verso una proposta inedita su tutto il territorio nazionale; anche se non ho scambiato la chitarra per un cajon, per un organetto o per un juke-box, non significa necessariamente che la proposta sia da archiviare perché ‘poco riconoscibile’ secondo i canoni estetici del cosiddetto mainstream.
Ad ogni modo, incrociando le dita, e considerato che organizzatori di festival intelligenti e senza pregiudizi ce ne sono, come presenterai dal vivo questo disco in solo?
Ho voluto realizzare un disco completamente riproducibile dal vivo, senza sovraincisioni (a parte un breve inciso nel primo brano per cui ho trovato una soluzione efficace per la versione live) o effetti particolari. Dal vivo suonerò il disco per intero, integrandolo con alcuni brani del precedente “Rosso Rubino”, qualche altro arrangiamento di brani tradizionali e un omaggio a due chitarristi per me fondamentali, di cui abbiamo appena detto, ovvero John Renbourn e Pierre Bensusan.
Ciro De Rosa
Enrico Negro – La memoria dell'acqua (Solitunes, 2015)
La chitarra fingerstyle ha raggiunto ormai le più improbabili vette del tecnicismo sfrenato e ha forgiato una pletora di adepti e seguaci dei vari Andy McKee e John Gomm, con l’acquisizione di una visione diffusa che considera il chitarrista non particolarmente incline a tecniche come tapping, hammering etc, una sorta di nerd (in italiano: sfigato) dello strumento. In realtà, già prima dell’avvento di Michael Hedges, lui sì, musicista e strumentista straordinario e capostipite degli stili percussivi da cui l’approccio chitarristico moderno sembra non poter prescindere, la chitarra acustica fingerstyle ha avuto dei musicisti impressionanti, in America Leo Kottke, John Fahey e Jorma Kaukonen, in Inghilterra i vari Bert Jansch, John Renbourn e Michael Chapman, tutti in qualche maniera connessi con la grande tradizione della Musica Folk, superata e sublimata in quella che negli anni ‘80 veniva taggata come Contemporary Guitar Music. E la chitarra acustica ‘diteggiata’ continua ad avere interpreti straordinari e almeno uno lo abbiamo in Italia, il piemontese Enrico Negro. Il bel disco di Negro, “La Memoria dell'Acqua”, è decisamente figlio dello stesso tipo di approccio che ha generato capolavori come i dischi di Renbourn “The Hermit “ o “Black Balloon”: musica tradizionale arrangiata per chitarra, nuove composizioni e omaggi alla musica colta, da Monteverdi a De Falla, riportano alla memoria proprio il grande chitarrista inglese appena scomparso, guarda caso omaggiato nelle note di copertina, che fondeva musica elisabettiana, folklore e ragtime, spesso citandole in composizioni originali . L’approccio alla musica ricorda quello di un altro musicista fondamentale per la chitarra moderna, il bretone Soig Siberil, spericolato interprete di danze e arie tradizionali e compositore impressionante. Questo succede anche nel disco del bravissimo chitarrista alessandrino: il colto e il popolare si (con)fondono, e la sublime tecnica chitarristica (ma anche l’ispirazione compositiva) non fanno rimpiangere la mancanza di effetti speciali; il disco è inciso senza over-dubs e senza furberie di post-produzione; solo chitarra (uno splendido esemplare del liutaio Aldo Illotta) e microfoni. Sono proprio le composizioni originali a costituire la cifra più interessante del CD: le toccanti “Rubato” e “Vento di Marzo”, quest'ultima arricchita da registrazioni di paesaggio sonoro, unitamente all’iniziale title-track, sono forse i momenti più belli del disco, ma anche le interpretazioni personali di rigodoun, saltarelli, sestrine (la Sestrina già utilizzata da Tesi e Vaillant nel loro bellissimo “Veranda”) e persino di un ragtime che profuma di Piemonte per tutta la sua durata, aggiungono il sapore tradizionale che è un aspetto fondamentale dell’ispirazione di Enrico che, ricordiamolo, è chitarrista di estrazione classica ma ha una carriera in formazioni importanti come Dona Bela, Tendachent e Edaq, band il cui esordio “Dalla Parte del Cervo” è stato uno dei più bei dischi italiani del 2013. Il CD si chiude con un personalissimo e riuscito omaggio a Fabrizio De André, una versione travolgente di “'A Cumba”. Insomma, la cosa importante è che non si tratta solo di un disco... per chitarristi, ma un disco bello che riporta all’antico uno strumento, la chitarra acustica, la cui tecnica va sempre di più verso l’interpretazione (o l'imitazione) di repertori propri di altri generi (pop, fusion); e tutto questo senza limitarne la creatività, anzi... “La Memoria dell'Acqua” esce per la nuova etichetta Solitunes Records, che ha come proprio motto ”Solo dischi in solo”, cioè l’intenzione di dare alle stampe solo dischi solistici, forma espressiva giustamente da rivalutare.
Gianluca Dessì
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Strings