Musicisti Basso Lazio ci riconduce a una dimensione musicale e, in generale, espressiva, articolata e colma di riflessi interessanti. Perché la produzione dell’ensemble - che ha all’attivo sei album e un paio di documentari video - è radicata dentro un contesto politico ben reciso. Che è quello a cui fanno riferimento (o lo hanno fatto in passato) diverse formazioni musicali riconducibili allo scenario folk e tradizionale del nostro paese. Uno scenario che si può riconoscere in modo sufficientemente verosimile in un uso politico delle musiche popolari e che - più in passato che oggi - ha supportato diversi movimenti di critica e contestazione. E nel quale le espressioni musicali tradizionali in un dato contesto, in un’area più o meno definita (non credo sia un caso che la provenienza del gruppo sia stata inclusa nel nome stesso), sono non solo rielaborate e riproposte, ma piuttosto rigenerate e ri-significate su un piano di rappresentazione che si configura in termini sopratutto politici. Le soluzioni in questo senso sono diverse, come diversi sono gli esempi che potrebbero servire a inquadrare un album come “Tarantella ribelle”, l’ultimo lavoro dell’ensemble guidato da Benedetto Vecchio: ricco, denso, costruito su una successione significativa di temi legati alla nostra contemporaneità, come il lavoro, i rapporti e i conflitti sociali, l’immaginazione, la memoria. Penso agli Zezi di Pomigliano d’Arco (anche loro con il riferimento territoriale nel nome), ai loro epigoni anche estremamente distanti sul piano della forma o nei modi in cui hanno elaborato i linguaggi tradizionali del napoletano (99 Posse, Bisca, Daniele Sepe: gli esempi potrebbero essere tanti, anche se il panorama è attualmente un po’ sfocato). “Tarantella ribelle” è il risultato di una storia espressiva che si è articolata sopratutto seguendo quel doppio codice che vede la politica e la musica convergere in un linguaggio elaborato e forte, ben piantato nella memoria musicale e in tutto ciò attraverso cui questa si articola: l’oralità, il dialetto, gli strumenti popolari, il richiamo alla ritualità e alla condivisione. Il primo brano in scaletta, che dà anche il nome all’album, è il manifesto dell’intero lavoro, che si connette idealmente alla storia del gruppo e a ciò che questo ha prodotto negli anni. E che lo spinge anche più avanti, grazie a una lavorazione molto attenta a tutti i dettagli – dal ritmo, all’andamento generale, al timbro e agli arrangiamenti – e, soprattutto, a un equilibrio che inquadra tutti gli strumenti in un flusso coerente e compatto. La costruzione del pezzo, che è strutturalmente semplice (come lo è anche il testo, che in questo guadagna in efficacia: “Gli sogni d’gli giovan’ so fatt’ d’ progett’/ persa la speranza, stann dent’ a nu’ cassett’”), esce da uno schema scontato grazie all’arrangiamento. Soprattutto nel prologo, dove si accenna l’aria che poi sosterrà tutto il brano, colpisce il modo in cui si intrecciano la zampogna e i fiati. L’atmosfera è cupa e coincide con la densità sonora dell’interno album, così come con la rappresentazione del tema che lega gran parte delle undici tracce di cui è composto. In questo senso, se dovessimo individuare gli elementi più ricorrenti, diremmo che si possono riconoscere nella volontà di cantare e suonare la critica, da un lato, e il riscatto dall’altro (“Cant’ pe’ la gioventù”). E, come accennato in apertura di queste note, se questo si vuole fare, si deve cercare un codice efficace. Che sia non solo “contrapposto” a quello con cui si veicola l’oggetto della critica, ma soprattutto capace di rappresentare (politicamente) la critica. Il cerchio si chiude qui, perché l’ensemble si affida agli strumenti che rappresentano “naturalmente” e nel modo più diretto un altro modo di parlare, di vedere e di descrivere le cose, grazie anche a un progetto di ricerca e documentazione effettuato nel territorio.
Daniele Cestellini
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