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Il trio d’eccezione, affiatatissimo, di olandesi, nel senso più inclusivo e multiculturale possibile, costituito da Ernst Reijseger (violoncello a cinque corde e voce), Harmen Fraanje (pianoforte, voce) e Mola Sylla (senegalese trapiantato ad Amsterdam da pressappoco trent’anni, voce, kongoma, xalam, percussioni) ritorna con “Count Till Zen”, disco che segue “Down Deep” (2013). È un’opera in dieci brani che nella convergenza dei tre artisti, dal background eterogeneo, annulla i confini e gli schemi di genere (musica da camera, jazz, improvvisazione, world). L’ugola di Mola Sylla fa da collante tra le corde di Reijseger e i tasti dello Steinway Grand Piano di Fraanje, non intendiamo solo in senso figurato, dal momento che i tre partner si sono disposti così di fronte ad un unico microfono panoramico Josephsen c 700 s e al produttore Stefan Winter. Si esprimono organicamente, generando pagine dalla visione aperta che assommano eleganza, virtuosismo, spazialità e imprevedibilità. Volendo cercarne a forza le coordinate musicali, dovremmo parlare di confluenza tra ascendenza accademica, jazz contemporaneo di matrice europea, ambito improvvisativo e componente vocale e timbrica del mondo wolof (il liuto xalam e il lamellofono kongoma, le percusioni). Qui, tuttavia, ci accostiamo ad un’ibridazione coesa non forzata, distinta da grande naturalezza, non appiccicata. Ascoltate la splendida comunanza dell’iniziale “Perhaps”, con piano e violoncello che si muovono intorno all’iterazione ritmica e al canto, tra il recitato e il declamatorio, di Sylla. Su una struttura analoga, contraddistinta dal tratto solenne, si snoda la successiva "Bakou".
Più erratica nella sua costruzione, pur conservando un forte senso melodico, è “Badola”, mentre si vivacizza il ritmo nella splendida title-track, in cui Mola canta su liriche tradizionali e l’interplay tra i partner è insuperabile: è un brano che conserva la capacità di sorprendere l’ascoltatore, come accade anche in "Headstream", dove il canto si fa gutturale ed è strumento in dialogo con l’avventurosità tecnica del violoncellista. Ha un tocco più melodico il piano di Fraanje nella fluente “Debenti”, imperniata su un testo tradizionale wolof. Dalle eteree “Out of the Wilderness” e “Falémé”, si passa alla pienezza di “Konkon”, unico brano firmato dal musicista di origine senegalese. I tre si congedano con la contemplativa e sussurrata, perfino un po’ austera, “Friuli”. Insomma, abbandonarsi all’ascolto di questa superba opera significa intraprendere un viaggio in cui occorre spogliarsi delle categorie jazz/classicismo/contemporanea/world: «Viviamo in un’epoca in cui la gente vuol sapere che cosa ascolterà, prima ancora di aver ascoltato. Per me è un enorme equivoco», ha dichiarato Ernst Reijseger in un’intervista al periodico italiano “Jazzit” (luglio-agosto 2013). Chiara l’idea?
Ciro De Rosa
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