Parte dalla Sicilia il quartetto Le Matrioske e ci porta in giro un po’ in tutto il sud Italia, per lambire poi varie espressioni musicali europee e non solo. Il disco omonimo di cui si parla qui è una selezione di otto brani, che possono considerarsi un sunto delle loro esperienze di ricerca e di riproposta delle musiche popolari legate al ballo. Il ballo, anzi, assume un ruolo centrale e diviene uno degli elementi che orienta le scelte del gruppo. E si dimostra anche un vettore valido a variare un repertorio molto diffuso e spesso percepito come statico, poco articolato e schiacciato (salvo eccezioni note a tutti) ai margini del revival delle musiche di tradizione orale. Oltre a questo – che riflette l’impianto generale e la struttura progettuale della band – l’album è costituito anche di brani originali, che si configurano interessanti perché richiamano forme differenti e, allo stesso tempo, lasciano emergere in modo più netto le intuizioni compositive e lo stile della band. Altro elemento importante, che traduce e determina il lavoro del quartetto sulle armonie e sugli arrangiamenti, è la strumentazione: chitarra, violino, banjolino, organetto, fisarmonica, percussioni e voci. Questa struttura (che in due tracce dell’album si è arricchita del contrabbasso e dell’organetto diatonico) ha determinato un flusso musicale morbido e curato, ma soprattutto essenziale. Nel quale si percepiscono nettamente i passaggi più importanti e le relazioni che intercorrono tra gli strumenti. In questo senso ciò che emerge più nettamente è una caratteristica riconducibile al timbro della band, che richiama varie eco popolari (non potrebbe essere altrimenti) ma anche il vasto scenario cantautorale del nostro paese. Per comprendere come questi due poli convergano in “Le Matrioske” occorrere scorrere la scaletta (composta di otto tracce) e riconoscere gli incastri tra brani originali e tradizionali. In questi ultimi vi è soprattutto un’atmosfera, un’impronta (che si può definire per comodità) popolare, che allo stesso tempo riflette un paesaggio sonoro festivo, vagamente rituale, ed è ricondotta a un lavorio di traduzione e interpretazione delle fonti da cui la band attinge. La versione di “Pizzica di San Vito” è molto rappresentativa di questa prospettiva. Gli elementi (e gli stereotipi) più riconoscibili (il ritmo, l’andamento generale cadenzato sul tamburello e quindi la caratterizzazione percussiva del brano, la coralità) sono addensati nella parte centrale del brano, che si asciuga in un intermezzo di tamburello per poi lanciare l’assolo del violino. Gli elementi invece più originali racchiudono l’intera esecuzione, emergendo nel prologo e nel finale. Il prologo accenna la linea melodica del brano attraverso il canto polivocale più lento e disteso, dove ogni passo è evidentemente curato e organizzato dentro l’ordine di un’introduzione che vuole marcare il filtro dell’interpretazione di un classico molto diffuso e cantato. Il finale (anch’esso breve) si fa strada dentro l’assolo di violino e si risolve in pochi passaggi che variano il tema e chiudono il brano all’unisono. Il panorama delle tradizioni musicali da ballo si configura attraverso varie forme: dallo scottish alla mazurka, dalla tamurriata alla tarantella. Per quanto riguarda invece i brani originali, “Briciole” è quello che racchiude molte delle suggestioni che emergono dalla musica de Le Matrioske. La caratterizzazione musicale è più profonda e crea delle oscillazioni armoniche più ampie e colorate. Nell’organizzazione della melodia della voce – distesa, cadenzata dentro un andamento regolare e ascendente sui finali di strofe e ritornello – si riconosce l’aderenza a una tradizione di scrittura che ricorda sia le forme delle musiche popolari (la seconda parte, in particolare, riflette alcune soluzioni melodiche adottate nei canti sulla tammorra) sia alcuni cantautori e band italiani, che hanno rinnovato la tradizione di scrittura a partire dagli anni Novanta.
Daniele Cestellini
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