Tra gli strumenti della musica di tradizione orale dell’Italia meridionale, il doppio flauto conserva il forte fascino di strumento arcaico, tanto che molti studiosi, anche autorevoli, lo hanno associato, anche per la presenza di antiche raffigurazioni molto ‘seducenti’, direttamente all’aulòs, che invece montava delle ance, semplici o doppie. Roberto Leydi, nel suo scritto “Doppi flauti zeppati diritti” (in “Culture Musicali”, 1983, n. 4), invitava alla cautela nell’avanzare parallelismi tra i flauti odierni e gli strumenti dell’età classica. Tra le aree geografiche italiane dove è attestata la presenza tradizionale del doppio flauto, pur con ruoli musicali molto differenziati in termini di autonomia di repertori ed impiego, ricordiamo la Sicilia orientale, la Calabria e la Campania. A partire dalle ricerche di Diego Carpitella (“Der Diaulos des Celestino”, in Musikforschung, XIII, n. 4, 1975, poi ripubblicato in Diego Carpitella, “Conversazioni sulla Musica (1955-1990)”, 1992, Firenze, Ponte alle Grazie), che analizzò lo strumento, diaulos, del capraio montemaranese Celestino Coscia (costruito con ogni probabilità dal compaesano Michele Mastromarino, di cui possediamo anche registrazioni di una tarantella raccolta nel 2000) e da quelle coeve di Roberto De Simone (nell’ormai classico studio con Mimmo Jodice “Chi è devoto”,1974, Napoli, Edizioni Scientifiche Italiane e in “La tradizione in Campania”, 1979, Roma, Lato Side, ripreso nel volume “Son Sei Sorelle”, 2010, Roma, Squilibri) si è assistito ad un vivace sviluppo di studi negli anni Ottanta-Novanta del secolo scorso, che hanno gettato luce su questo peculiare strumento della cultura musicale tradizionale del nostro Paese.
Qui ricordiamo i lavoro di Roberta Tucci e Michele Rizzi in Calabria, di Mario Scarica in Sicilia, di Francesco Cleopatra (“Il doppio flauto in Campania”, 1985, in AA.VV. “Ricerche sul doppio flauto in Italia, Bologna, DAMS) e Roberto Palmieri (“Il doppio flauto in Campania. Nuovi contributi e ricerche” 1986, Bologna, DAMS) per restare in territorio campano, agli studi di Nico Staiti sull’iconografia degli strumenti antichi, a Emilio De Fazio, attivo nel Lazio, tra l’altro, nello studio di strumenti effimeri, fino ai tentativi di sistematizzazione e di comparazione di Febo Guizzi e Roberto Leydi (“Strumenti Musicali e tradizioni Popolari in Italia”, 1985, Roma, Bulzoni) e all’Incontro internazionale di organologia “Il doppio flauto in Italia e in Europa” a Cusano Mutri (BN) nel novembre 1990. Proprio dallo spazio etnofonico sannita sono arrivate nuove documentazioni sonore che si affiancano a quelle storiche, contenute nel CD “Voci e strumenti della Campania infelix, volume secondo - Il Titerno” del 2007, curato da Amerigo e Marcello Ciervo. Inseriti nello strumentario revivalistico e world, non mancano sviluppi più recenti, da collocare a cavallo tra ricerca organologica, memoria orale e pratiche di ricostruzione, come quello operato in Irpina, a Montemarano, soprattutto per merito di Luigi D’Agnese (un doppio flauto di sambuco è stato ricostruito nel 2005 da Carmine “Pasqualino” Ziviello).
Non è questa la sede per spingersi più a fondo in questioni organologiche e musicologiche, che ci porterebbero a riflettere sulla derivazione da strumenti delle antiche culture mediterranee, sulla relazione tra doppi flauti e altri strumenti policalami, in primis le zampogne, nell’impianto di base e nei rapporti tra le canne.
O ancora produrre ipotesi sulla circolazione di questi flauti, sui rapporti con aerofoni di altre regioni o addirittura di area mediterranea, sulla provenienza e sull’importazione di questi strumenti da parte di suonatori, che poi si sono radicati in un certo territorio anche per la presenza di costruttori di altri flauti o per la realizzazione fatta da zampognari di passaggio. In realtà, ci occupiamo di chi oggi in Campania ha deciso di dedicarsi principalmente alla costruzione di doppi flauti. Nello spazio geografico campano, lo strumento, spesso chiamato siscari, sembra avere un’autonomia rispetto alla zampogna, diversamente che in Calabria e in Sicilia; è costituito da due flauti singoli, dritti di canna (la specie arundo donax), a bocca zeppata, con un’imboccatura assai corta rispetto ad esempio a quelli siciliani, suonati contemporaneamente dal suonatore. Nei “frauli doppi” dell’area circumvesuviana, e in quello di Montemarano, nell’avellinese, lo strumento è costituito dal cosiddetto “maschio” (dotato di 3 o 4 fori), impugnato con la mano destra, e dalla “femmina” (con 4 o 5 fori), impugnato con la sinistra. Diversamente, a Cusano Mutri (BN), lo strumento, di fattura lignea, consta di due tubi giustapposti, con un’unica imboccatura. La canna della mano destra è dotata di 6 fori più 1 sul dorso, mentre quella sinistra, per accompagnamento, ne ha 4, in corrispondenza degli ultimi dell’altro lato. Riguardo alla funzione e all’uso musicale, a Montemarano aveva una funzione melodica, connesso con ogni probabilità anche con le pratiche musicali del Carnevale; a Somma, dove è usato in occasione della festa della Madonna del Castello, l’uso era soprattutto ritmico. Nel beneventano, poi, lo strumento ha mostrato una forte vitalità e un distinte tragitto costruttivo. Naturalmente, ci si riferisce all’uso per così dire tradizionale, visto che l’innesto del flauto in organici di nuova musica acustica porta con sé l’incontro e la commistione di differenti tecniche esecutive. A rilanciare la costruzione del doppio flauto in Campania è Giovanni Saviello (giovanni.saviello@gmail.com), quarantenne costruttore e suonatore, originario di Pastorano, una frazione di Salerno, ma sin da ragazzo cresciuto a Torre Annunziata. Per aggiungere ulteriore suggestione, Saviello vive a pochi metri dagli scavi di Oplonti, un’area archeologica situata nel centro della città torrese comprendente una villa d’otium e una villa rustica, mentre non lontano da qui, a Castellamare di Stabia, risiede Walter Maioli (chi non lo ricorda con i fantastici Aktuala), autorità nel campo della paleo-organologia e polistrumentista che con la Fondazione Ras, ha creato all’interno dell’Istituto Internazionale Vesuviano per l’Archeologia e le Scienze Umane, il laboratorio di ricerca su suoni, musiche e danze dell’antichità romana, Synaulia in Stabiae, che tra le altre attività propone numerose performance con strumenti dell’antichità classica.
Raggiungo Giovanni, che con il suo banchetto di flauti, ho incontrato tante volte al festival “La Zampogna” di Maranola o come suonatore in concerti e feste popolari, nella sua casa nel centro di Torre Annunziata nei giorni che precedono la Pasqua. Giovanni mi dice di essere impegnato a preparare la pastiera, il dolce pasquale tipico dell’area napoletana. Subito associo questa sua competenza culinaria a una spiccata manualità, che trova conferma nel suo precedente lavoro di intagliatore e cesellatore di pietre vesuviane: parliamo di una pietra molto duttile, usata per pavimentare strade, per le fontane, per produrre i cammei, ma anche della sua passione per le scenografie presepiali coltivata da giovane: «Occorrevano mesi per completarle. E centinaia di persone venivano a vedere il mio presepe», mi racconta Giovanni. Pur non provenendo da una famiglia legata alla musica, Saviello ricorda quando girava la manovella del grammofono del nonno, che suonava dischi di lirica. In seguito, la sua voce squillante da tenore lirico era stata notata quando era corista della chiesa di Santa Teresa di Gesù. La carriera di cantante lirico non l’ha proseguita, ma da autodidatta è passato dall’organo di chiesa alla fisarmonica, all’organetto otto bassi, ai tamburi a cornice, alla ciaramella, acquistata una quindicina anni fa, con devozione tipica del cultore di strumenti popolari, dai grandi costruttori lucani Forastiero. Non secondario è il suo incontro con Giovanni Coffarelli, compianto autorevole cantatore e curatore locale della musica popolare di area vesuviana, con cui ha collaborato per laboratori didattici, e il suo apprendimento dei repertori canori tradizionali dell’entroterra napoletano accanto a un’altra personalità di rilievo quale Giannino Del Sorbo. Frequentando le feste devozionali mariane, incuriosito dall’aver visto un esemplare di doppio flauto suonato da Mario Albano della sommese Paranza d’Ognundo (figlio di Lucio Albano, un tempo capo della paranza), Saviello decide di voler suonare quello strumento: «Ma non c’era chi lo costruiva! Così, visto che nessuno lo vendeva, pochi lo suonavano, me lo sono costruito da solo. Si trattava di un modello sommese dotato, rispettivamente, di 4 e 3 buchi. Ma dai primi strumenti usciva un suono sgradevole, sgradevolissimo». Dopo le prime non proprio positive sperimentazioni costruttive, Saviello inizia a fare pratica. «Avevo trovato come punto di riferimento le tavole di strumenti che erano state misurate da Carpitella e Leydi e dagli studiosi successivi degli anni Ottanta: Palmieri e Cleopatra. Li ho fatti identici, proprio millimetricamente, ma non suonavano. Allora mi sono detto: non posso partire da questi, devo fare esperienza! Così ho cominciato a costruire flauti tappando i fori con la cera o con la pasta di legno. Insomma, a fare delle prove. Ho costruito più di 100 flauti per imparare. Di quello che rimaneva, facevo i fischietti per bambini.
Sono riuscito a farmi le mie misure». Da musicista Saviello ha collaborato con il compianto Giovanni Coffarelli, con la Nuova Compagnia della Tammorra di Scafati, con la Paranza d’ ‘O Lione, con i napoletani Damadakà. Nel periodo natalizio la sua devozione lo porta ad imbracciare la ciaramella e a fare coppia con Felice Cutolo alla zampogna per portare le novene. «Sono religiosissimo: penso che senza la religione, che per me significa elevarsi, alla musica manchi qualcosa. Sono cattolico perché ho avuto questa formazione, ma sono religioso in senso ampio. Mi sento zampognaro vero, sull’esempio di Sant’Alfonso: portare dalla parte del bene più persone suonando le novene». La pratica di zampognaro ha spinto Saviello a iniziare a lavorare anche sui legni degli aerofoni ad ancia per produrre ciaramelle e in futuro zampogne. Ritornando ai flauti, la produzione inizia dalla raccolta che Giovanni efefttua in Campania. «La fase di raccolta mi ha permesso di imparare aspetti della natura che non conoscevo come i cicli delle piante. Vado a raccogliere, anzitutto, quando la luna è calante, da gennaio a marzo, ma soprattutto a gennaio. Sono cose note nella cultura contadina: la pianta è a riposo e quindi passa meno linfa. È un po’ come se andassi al supermercato: ormai arrivo a capire ciò che taglio, che suono produrrà. Quando vado a raccogliere, vado direttamente a prendere un DO. Oltre alla canna domestica, raccolgo i legni con cui ora ho iniziato a costruire alcuni flauti: ciliegio, pruno selvatico, olivo, rosa canina e albicocco. Riflettendo sul rapporto tra suoni e materiali, penso che ogni zona abbia un suo suono. Per esempio, le tonalità in FA e il RE sono molto apprezzate in Calabria, dove la vegetazione, le canne producono delle sessioni di materiale che sono di quelle tonalità…». Fase centrale è quella dell’essiccazione dei materiali: «Nella casa precedente avevo lo spazio adatto, qui no, così ho trovato amici che mi tengono le canne e i legni finché non sono pronti. Per produrre un buon doppio flauto, la canna deve stagionare almeno un anno, i legni, invece, almeno 4-5 anni, ma quando più stanno, meglio è. Quando mi accorgo che il legno si è stabilizzato, inizio a lavorarlo». Saviello mi conduce nella sua stanza laboratorio, occupata da legni, canne, semilavorati, attrezzi, raffigurazioni di suonatori, terreni e celesti, e di strumenti, da quelli medievali a quelli del mondo popolare. «Dopo lo stoccaggio, inizio a fare i semilavorati, poi i fischi, la parte che emette il suono base, e poi i suoni. In base al suono che esce, decido se costruire un flauto singolo, doppio o addirittura triplo. Per la foratura mi sono auto-costruito degli scavini e possiedo un bisturi da sala operatoria. Uso la mola per ottenere il becco più liscio, mentre per i flauti in legno uso il tornio. Ma la canna si può lavorare anche solo con il coltello.
Per ogni doppio flauto la zeppa è sempre in limone. L’ho scelta come mia caratteristica. Prima ho fatto delle prove, mi piaceva il suono, ma ho deciso di dare un tocco delle nostre zone, della nostra costiera». Da sperimentatore, Saviello mi fa vedere un modello di flauto armonico in sambuco e un modello dalle sonorità di tin whistle, appena prodotti. «Costruisco tutti i modelli in uso in Campania, modelli siciliani e calabresi, ma anche prototipi su commissione. Ho prodotto strumenti che riprendono le sonorità del doppio flauto del mondo arabo e sto sperimentando anche con la doppia ciaramella (in uso tradizionale nell’area salernitana, ndr). Per esempio, ho realizzato un modello di doppio flauto per la festa della Madonna Addolorata Afragola, costruendo il flauto sulla base dell’estensione del canto, sia nella parte solista che nell’accompagnamento. Costruisco flauti in tutte le tonalità: da SOL basso, di circa 40 cm, al DO basso, di 11-14 cm. La mia volontà è di creare strumenti precisissimi per intonazione, ma, soprattutto, facili da suonare. La concezione della costruzione di una volta aveva dei canoni, la gamma di strumenti era ristretta. In effetti, una volta compreso come fare le note, si può fare di tutto. Oggi, io sono come un sarto, nel senso che è come tagliare e cucire un vestito: posso costruire lo strumento su misura, con note e accordature che non esistevano. Ci sono musicisti che mi chiedono lo strumento per arrangiare un certo brano. Chiedo loro di portarmi le note del brano per realizzare lo strumento adatto». Non secondario l’aspetto conservativo e manutentivo, ascoltiamo ancora Saviello. «Naturalmente, gli strumenti di canna sono più delicati di quelli di legno. Un grosso problema sono gli sbalzi di temperatura. Per esempio, se devo suonare dove c’è la neve, devo prima riscaldarlo. D’estate, passo un po’ olio di mandorlo. Poi c’è la pulizia, che faccio raramente, perché se lo strumento non suona più bene, ne costruisco un altro. In realtà, tutto dipende dalla salivazione, se si mantiene la bocca pulita, lo strumento non sarà soggetto a sporcizia.. Invece, per i legni, come per tutti i flauti dolci, occorre ungere, periodicamente, con diversi tipi di olii». Oggi nel circuito della musica popolare, Giovanni Saviello rappresenta il doppio flauto. Sono strumenti che sono stati apprezzati sia da musicisti tradizionali che da gruppi e artisti che contano nel revival: da Ettore Castagna a Pino Salomone, da Mario Salvi a Francesca Incudine. Poi ci sono i giovani gruppi nu folk come i sanniti Emian Pagan Folk che hanno inserito il flauto doppio nel loro strumentario.
L’assaggio dello strumento è un passaggio centrale, «Per migliorare gli strumenti come tester, faccio riferimento ai musicisti: Fabio Soriano, Goffredo degli Esposti, Alessandro De Carolis, sono i primi nomi che mi vengono in mente. Loro mi danno indicazioni sulle imboccature, sulla tastiera, sul suono, ecc. Come costruttore, ho pensato sempre di non copiare. Il suono è parte del costruttore, se copi il modello di qualcun altro, non sarà mai il tuo strumento. Ciò mi ha fatto evolvere molto. Sono alla ricerca del suono. Quello che ho capito, sentendo gli altri, è che più andiamo avanti più diventiamo sordi. Gli strumenti di un tempo non erano cosi forti, siamo diventati completamente sordi. Io ho riacquistato l’udito costruendo. Le persone sono bombardate da suoni forti, da microfoni e da amplificatori, non riescono ad ascoltare quei suoni armonici… così belli. È meglio ascoltare davvero gli armonici o è meglio che sentiamo più forte? Ciò vale per tutti gli strumenti, per tutte le accordature». Ecco che Saviello introduce un tema che gli sta molto a cuore. L’incontro con il musicista milanese Walter Maioli, lo ha spinto ad affrontare il quesito dell’intonazione: 440 Hz? O 432 Hz? «L’intonazione dei nostri strumenti temperati a 440, anzi ora a 442 è una fotografia sbiadita delle bellissime frequenze che possono emettere degli strumenti fatti con materiale naturale che legano con le loro sonorità la persona che suona, le persone circostanti e la natura, che diventano una sola cosa. Quando costruisco, se costruisco a 432 Hz, quando accordo è come se si accendesse una luce, inizio a vibrare, sento la terza nota, perché il doppio flauto riprende un suono della natura, che poi è il suono dell’usignolo, che ha la siringe, due tubi che si sommano nel terzo.
È quel suono che si sente quando si suona per bene una tammorra, quando si ascolta una preghiera, o si ascolta l’OM orientale. Quell’insieme di suoni che poi si fondono, che si confondono, che si moltiplicano con la frequenza della terra. È qui scatta il magico di questi strumenti, che mi ha portato ad approfondire sempre di più. Io lo avevo sentito sulla mia pelle, ma non riuscivo a capire che cosa era, poi Maioli mi ha aperto gli occhi». Per il musicista milanese, Saviello è l’anello moderno del suo discorso paleo-organologico e di archeologia sperimentale. Tra l’altro prima di Saviello, non esisteva una produzione con una gamma così ampia di strumenti. I suonatori costruivano per sé stessi o avevano una produzione limitata. «All’acquirente, do la possibilità di scegliere: “Ti piace quello di una volta, che ti faceva vibrare? O questo accordato come la Mc Donald?”. Tutti mi rispondono che gli piace quello che suona come gli strumenti antichi, ma poiché devono suonare con gli strumenti che sono accordati come la McDonald… scelgono quello a 440 Hz. Ho sempre cercato di imporre questa base: di spingere per una rivoluzione nell’intonazione. Niente, non è possibile! Molte volte le cose così semplici che ci potrebbero far stare meglio, non si fanno! L’ho provato sulla mia pelle, è quindi mi dico: “È così bello!”. Mi sono spiegato perché il suono della tammorra mi fa stare così bene. La tammorra non è accordata a 440 Hz. Quando trovi la tammorra che ti fa vibrare, stai sicuro che è a 432, stai sicuro… Anche nel canto sulla tammorra, perché si canta meglio? Perché si sente il suono della vibrazione del tamburo: è il canto sul tamburo. Quando poi entrano in gioco gli strumenti temperati, come fisarmonica e organetto, quella cosa scema…»
Quale è la prospettiva di un frequentatore di feste popolari. Quali i mutamenti sono da mettere in rilievo per queste manifestazioni, così centrali del mondo musicale popolare? Osserva Saviello: «È cambiata la visione della musica. Oggi la musica è competizione, anche a causa di programmi televisivi. Alla base della musica c’è la condivisione, come dicevano i vecchietti: “Jamme ‘a pazzià’”, che significa “Andiamo a giocare”; è come “jouer” in francese o “play” in inglese, dove la parola per suonare e giocare è la stessa. È il senso della musica popolare: giocare, divertirsi, magari utilizzare la musica per elevarsi. Com’è cambiata la musica, è cambiata pure la festa. Prima nella comunità c’era qualcuno che emergeva, ora tutti vogliono suonare, tutti vogliono emergere. E magari quello che è bravo, non è riconosciuto come tale dalla comunità. Viene visto come punto di riferimento l’anziano, vicino al quale tutti si fanno il selfie, come a dire: “Io l’ho conosciuto e quindi sono portatore di questa tradizione”. Penso di essere riuscito a vedere, fortunatamente, l’ultimo sprazzo di qualcosa di bello. Ho visto raramente persone che ballano come le vecchiette che ho visto ballare la tammurriata. Gli atteggiamenti di quelle vecchiette, di quelle contadine non li ho visti più. Per quanto riguarda il canto, ho visto giovani tra i 25 e i 30 che hanno le stesse sonorità, lo stesso modo di porsi degli anziani di una volta, il suono del tamburo, pure, ma nel ballo no, ho visto pochissime persone muoversi come quelle di una volta».
Uno degli aspetti che contraddistinguono gli strumenti di Saviello sono le belle decorazioni, i suoi strumenti istoriati davvero unici. Spiega Giovanni: «Tutti gli strumenti sono decorati da mia moglie, Marianna Tateo. Questo ha messo – come dire – la marcia in più ai miei strumenti. Tutti quanti hanno apprezzato il suono, ma sono tutti affascinati dalla bellezza di questi strumenti, che non sono opera mia, ma di mia moglie. Lei ha fatto studi artistici e sa disegnare bene, la prima volta gli fatto vedere io come incidere, dal momento in cui ha fatto la prima cosa, io non ho inciso più. Ma da allora sono diventato famoso – lo dico umilmente – anche per le decorazioni dei flauti. Secondo me, l’espressione artistica di mia moglie ha raddoppiato il valore degli strumenti,: sarebbero rimasti dei buoni strumenti, ma la decorazione li ha fatti diventare molto richiesti. Non ci sarebbe stato questo “clamore” intorno ai miei flauti». Gli chiedo qual è il modello più richiesto dagli acquirenti. «Come per lo stile di un organetto di studio Castagnari, utilizzato in tutte le scuole, il modello più richiesto è il doppio flauto accordato per terze in SOL, da lì si parte. Chi veramente inizia a suonare, poi richiede altre tonalità e altri modelli».
Quali le strategie di mercato adottate da Giovanni Saviello? «Mi muovo con il passaparola: i musicisti si sono passati la parola tra di loro, perché hanno riscontrato che gli strumenti sono precisi. Poi, ci sono anche la mia pagina facebook e il gruppo “Amici del doppio flauto”. All’estero ho venduto flauti solo in occasione di concerti, al termine dello spettacolo dopo la presentazione o con un apposito banchetto. In futuro, ma non nell’immediato intendo sviluppare questo aspetto delal commercializzazione partecipando a fiere e mercati. Aspetto che la mia bambina, che è ancora piccolina, va a scuola... per mettermi in produzione, per svoltare in questo senso: diciamo che è come se lo studioso che ha iniziato a fare, volesse sfondare… Tale è la mia passione, tale la gioia che mi dà costruire per gli altri, che voglio farlo come prima cosa nella vita». Ritiene di aver raggiunto il massimo come costruttore? Saviello risponde con serafica risolutezza: «Se avessi raggiunto il massimo, vorrebbe dire che non sono un costruttore. Non si finisce mai… Quando costruirò uno strumento perfetto, significa che non sono più un costruttore, sono un esaltato».
Ciro De Rosa
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