Quella che si è svolta dal 15 aprile al 19 maggio presso il Museo degli Strumenti Musicali dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, collocato all’interno dell’Auditorium Parco della Musica in Roma, non è stata soltanto una bella mostra – curata da Domenico Ferraro con la collaborazione dello studioso di storia orale Enrico Grammaroli – che ha intrecciato immagini e suoni dello storico spettacolo “Sentite buona gente”, realizzato in occasione della pubblicazione del volume “Roberto Leydi e il ‘Sentite buona gente’. Musiche e cultura nel secondo dopoguerra”, scritto dallo stesso Ferraro per Squilibri. Difatti, la mostra ha ospitato un ciclo di incontri, presentazioni e brevi concerti, divenendo luogo di confronto e di riflessione sul mondo popolare, tra passato e presente. L’esposizione è stata promossa dalle edizioni Squilibri, d’intesa con l’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e la collaborazione del lombardo Archivio di Etnografia e Storia Sociale, del Centro di dialettologia e di antropologia di Bellinzona, del Piccolo Teatro di Milano e della RAI. Dopo l’apertura con la presenza di Alberto Negrin, che dello spettacolo milanese della stagione 1966-67 fu il regista, e i musicisti sardi di Maracalagonis, guidati dal suonatore di launeddas Orlando Mascia, a rappresentare una tradizione musicale che si perpetua, i primi due appuntamenti sono stati incentrati sulla presentazione proprio del volume di Ferraro (con Maurizio Agamennone, Bruno Pianta e Furio Colombo) e di quello di Timisoara Pinto sulla singolare figura di Enzo Del Re (“Lavorare con lentezza”, sempre per Squlibri), con le testimonianze in musica di Peppe Voltarelli, Andrea Satta e Carlo Amato, mentre la conclusione è stata affidata a una discussione sulla ristampa di “Lettere da una tarantata” di Annabella Rossi (che per lo spettacolo del Piccolo di Milano avrebbe dovuto curare una mostra sull’arte popolare), con Tullio De Mauro e Paolo Apolito.
Ci occupiamo della giornata di sabato 16 maggio, quando Maurizio Agamennone e Marco Lutzu hanno presentato “Musiche tradizionali di Aggius. Le registrazioni del CNSMP (1950-1962)”, decimo volume della collana degli Archivi di Etnomusicologia dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ma il primo di una sotto-collana dedicata alla Sardegna, che si preannuncia quanto mai ricca di tesori sonori. Il libro sul canto aggese, con acclusi 2 CD, è straordinario, raccogliendo registrazioni storiche effettuate nel piccolo centro gallurese. Sono cinquantasei tracce, registrate in un arco temporale di dodici anni nel corso di rilevazioni di personalità di studiosi, che hanno segnato gli studi etnomusicologici ed antropologici in Italia. Se Maurizio Agamennone nella sua rigorosa e attenta disamina ha passato in rassegna gli aspetti rilevanti del libro, senza risparmiare qualche appunto critico sull’impiego di alcune categorie musicologiche da parte di Paolo Angeli, ponendo l’accento sulla fondamentale premessa metodologica del curatore e degli studiosi che hanno contribuito al volume (Ignazio Macchiarella, in primis) di non “monumentalizzare” i documenti sonori, ma di offrire un percorso che fotografa prassi performative e modi canori fissati in un preciso momento storico, da parte di determinate figure di cantori. Un’opera che propone l’affresco di una storia culturale, ma offre anche riferimenti sonori imprescindibili per i musicisti della contemporaneità.
È toccato poi al curatore del volume, l’etnomusicologo sardo Marco Lutzu, proporre un itinerario nello sviluppo del suo lavoro di ricerca sul canto aggese. La parte musicale ha visto nel tardo pomeriggio l’esibizione di due gruppi sardi, portatori di pratiche vive, detentori di una grande eredità musicale. Per primi, abbiamo ascoltato il Coro “Galletto di Gallura” di Aggius (Giampiero Cannas, “la bozi”, la voce, Giampiero Leoni, “lu trippi”, la terza superiore e “lu falzittu”, il falsetto, Antonio Leoni, “lu trippi”, terza superiore, Serafino Pirodda, “lu contra”, il contra e Martino Spezzigu, “lu bassu", il basso), composto da allievi del grande cantore Salvatore Stangoni, specializzati nel canto a più parti, localmente denominato “a tasgia”. Siamo di fronte a portatori di una forma espressiva considerata elemento centrale dell’identità culturale del borgo gallurese, prosecutori dell’attività dello storico Coro che è passato dagli apprezzamenti di D’Annunzio allo spettacolo “Ci ragiono e canto” di Dario Fo. A seguire, è entrato in scena il quartetto Tenore Supramonte di Orgosolo (Franco Davoli, boghe, Salvatore Floris, bassu, Giuseppe Paulis, contra, Antonio Garippa, mesu), introdotti dalla meticolosa presentazione di Sebastiano Pilosu, etnomusicologo del Conservatorio “G.P. Da Palestrina” di Cagliari.
Esponenti di questa magistrale musica vocale maschile, costituita da quattro voci e quattro parti, disposti in cerchio (quelli di Orgosolo si pongono in senso orario: boghe, contra, bassu e mesu boghe), per favorire un gioco di sguardi e di vicinanza fisica, che consentono l’efficace comunicazione tra i cantori, I Tenore Supramonte di Orgosolo, che rappresentano la terza generazione di interpreti, eredi di quei cantori che avevano partecipato proprio allo spettacolo promosso da Roberto Leydi per la stagione del Piccolo Teatro per la stagione 1966-67 (tra l’altro erano in presenti in sala Nazarino Patteri, uno dei componenti del gruppo che prese parte allo spettacolo milanese, e il figlio Pasquale, appartenenete alla seconda generazione di cantori), hanno offerto una bella esemplificazione del loro vasto repertorio, passando dai testi di Peppino Mereu, il poeta sardo più cantato, a forme di canto di accompagnamento al ballo, dai “gosos” ai muttos. Dalla Sardegna all’isola linguistica di Rezjia con l’esibizione di un altro gruppo all’epoca presente nel “Sentite buona gente”: i danzatori del gruppo Folkloristico Val Resia, (su basi musicali registrate), introdotti dal compositore e musicologo Piero Arcangeli, con il loro programma di danze vive della comunità linguistica paleo-slava friulana (tra le quali “Ta Zagatina”, la danza di Zagata, una località d’alpeggio, “Čärni potök”, e ancora il canto della frazione di Oseacco e il noto canto “Lipa ma Marica”). In definitiva, un plauso agli organizzatori per la mostra e per i quattro appuntamenti di rilievo, che hanno messo al centro il mondo popolare italiano, da Nord a Sud, tra parole e note, senza passatismi, nostalgie, ma come affermazione di pratiche musicali del presente.
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