Dopo aver ascoltato “Dawâr”, il nuovo disco del Trio Chemirani, si profilano diversi livelli di riflessione. Cioè diverse possibilità di riflettere su alcuni aspetti che emergono in modo netto da un disco che è sopratutto molto ben fatto, complicato, profondo e legato a un modo di fare musica evidentemente diverso da “come si fa da noi” (e non solo). Prima di proporre alcune riflessioni di carattere più generale sul profilo “culturale” dell’album, proviamo a capire di che si tratta attraverso gli elementi più tecnici. È un disco di percussioni, anche se in alcuni brani (in tutto in scaletta ce ne sono diciotto) compare il saz, il liuto a manico lungo ampiamente diffuso, attraverso caratteristiche organologiche variabili, in un’ampia area mediorientale. E anche se il zarb, il tamburo a calice che suona il trio, originario del nord dell’Iran, può essere considerato, per la tecnica con cui si suona e per i suoni che produce (si percuote con i polpastrelli, come le tabla indiane, oltre che con il palmo della mano), una percussione melodica, capace di riprodurre lo stesso numero di note di un pianoforte. “Dawâr” è suonato esclusivamente dai tre membri dell’ensemble (composto da Djamchid Chemirani e dai suoi due figli Keyvan e Bijan). I quali, come si può dedurre ascoltando (molte volte) la successione dei brani, convergono su un’idea fondamentale che contraddistingue la corposa discografia prodotta fin qui: la musica, nella maggior parte dei casi, prima si suona e poi, quando è necessario per lo sviluppo di un tema, si scrive, si canta, si solfeggia. Si traspone su un foglio e la si “guarda” crescere arricchendola di elementi coerenti. Ripeto, quando è necessario. Qui entriamo nel quadro culturale entro cui si sviluppa il disco. Siamo di fronte a tre maestri che, partendo dalla tradizione classica iraniana, hanno definito il profilo di una produzione sonora nuova, facendo riferimento ai fattori musicali, tecnici, e a quelli di ordine socio-culturale (Djamchid Chemirani è considerato uno dei più grandi suonatori di zarb al mondo ed è stato allievo di Hossein Teherani, il più importante suonatore di zarb del Novecento. I suoi due figli, Keyvan e Bijan hanno appreso le tecniche esecutive dello zarb dal padre e oggi lavorano in tutto il mondo per far conoscere lo strumento e le tecniche con cui si suona, attraverso seminari, concerti e collaborazioni con formazioni e artisti world e jazz). Da questo quadro emergono alcuni elementi più caratterizzanti di altri: la formazione, l’apprendimento, cioè i metodi di trasmissione del sapere, la composizione, lo studio della tradizione musicale di riferimento e delle tradizioni musicali con cui questa ha avuto legami storici determinanti, la relazione tra il sistema di conoscenze e tecniche incorporato da questi musicisti e le musiche europee (i Chemirani vivono in Francia). Questi ultimi due aspetti rimangono predominanti nel modo in cui i Chemirani assemblano i loro brani. Difatti, come sottolinea Djamachid in un interessante mini-documentario prodotto dalla Harmonia Mundi, Keyvan e Bijan si sono formati in riferimento alla cultura musicale europea, nel quadro della quale hanno potuto elaborare uno stile composito, aderente alle tecniche tradizionali (che sono state integrate anche con lo studio di altre tradizioni musicali affini, come quella indiana) ma più moderno. A questo processo fa da contrappunto la formazione del padre e maestro Djamachid, che suona il zarb dall’età di otto anni e ne ha appreso le tecniche oralmente, cioè memorizzando (così prevedeva la tradizione) le esecuzioni del suo maestro. Per quanto riguarda la composizione (come ho in parte anticipato), l’estemporaneità ha un ruolo centrale: si suona insieme e si improvvisa, si individuano i “pattern” che funzionano e si sviluppano attraverso varie direzioni. Ragionando spesso dentro un quadro comparativo. La musica iraniana è orizzontale, mentre quella occidentale è verticale, costruita cioè sull’armonia. Non potendo lavorare sull’armonia i Chemirani lavorano sulle rifiniture, sviluppando i modelli basilari e integrandoli sia sul piano del ritmo che su quello del timbro. Come ci ricordano loro stessi, “invece di suonare tak tatatata, suoniamo trrrlla teetatatakrrrlllratata”.
Daniele Cestellini
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