Ho sentito parlare per la prima volta di Bela Fleck più di vent'anni fa, quando mi procurai un album del mio adorato Davy Spillane intitolato “Atlantic Bridge”. Dentro c'era un brano intitolato “Sliverish” dove le uilleann pipes duettavano con il suo banjo, e quel pezzo tutto sembrava fuorchè un pezzo country.
Interessante, mi dissi, di solito un banjo caratterizza molto, e finisce molto spesso per dare un bel tono country a tutto quanto. Quella volta no, e neanche questa. Perchè il nostro è un vero e proprio virtuoso, non solo per come suona lo strumento ma anche e soprattutto per come riesce a rileggere i vari contesti musicali ed ad inserircisi dentro con una discrezione che qualcuno potrebbe perfino scambiare per modestia, per quanto è precisa e rispettosa. Del resto si chiama Bela, come Bela Bartòk, non a caso.
Se questo album fosse un colore, sarebbe seppiato. Polvere e toni rossastri ovunque. Caldo. E la voce di lei, molto discreta anch'essa, a completare il quadro. Oltre a ciò canzoni reinterpretate secondo un vero e proprio istinto progressive che consente di apprezzare in toto l'enorme capacità musicale di Bela Fleck, fatta di grandissima tecnica ed enorme abilità arrangiativa e di scrittura, peraltro sempre sostenuta dall'altro banjo di Abigail. Sentire per credere il brano “New South Africa”, un vero e proprio melting pot di stili dove due banjos si spingono fino al Capo di Buona Speranza, e nessuno dubita che il banjo possa essere uno strumento di quelle parti. Oppure “Pretty Polly”, una canzone che avrebbero pututo cantare i Cranberries o perfino Bjork; o ancora una “Shotgun Blues” dove la bella voce di Abigail non fa rimpiangere perfino Tom Waits. Per poi finire ad una “Banjo Banjo”, vero capolavoro e autentica dichiarazione d'amore verso il/i proprio/propri strumento/i. Un album splendido, e avrete capito, non solo per gli amanti del genere di Bela Fleck. Che poi, qual'è il genere di Bela Fleck?
Massimo Giuntini
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