Il destino del Canto
Sintesi delle relazioni tenute nei convegni di Salerno (31 maggio 2014) e Venezia (4 ottobre 2014)
Il canto è una delle manifestazioni più totali dell’uomo. Si espande al tutto senza soluzioni di continuità dalla base del suo animo. La parola (non quella poetica, che appartiene al canto) – anche quando chi la pronuncia la rivolge a se stesso – è orientata: istituisce il dia – logo: un legame (logos) che, mentre unisce, anche separa: pone un “tra” (dia), una differenza, ed in questa assegna a ciascuno una parte. Il canto viceversa non è diretto mai a nessuno in particolare. Anche quando è rivolto ad un pubblico, si effonde circolarmente, avvolge e con - fonde cantanti ed ascoltatori in un unico ambiente sonoro. Chi canta vive interamente nel canto (nell’in – canto), modula il tempo e fa di esso esperienza pura ed intensa. In tale modo il canto lo spinge e lo accompagna al centro delle cose. Quando poi cantano insieme, gli uomini lasciano cadere le reciproche barriere e si accomunano. Si avvicinano a quella condizione in cui – come dice l’Apostolo - “tutto è in tutti”. Perché grazie al canto comune alla centralità si giunge insieme. E ad una pienezza non esclusiva, ma tanto più intensa quanto più condivisa. Il canto però ha bisogno di condizioni e di contesti adeguati per fiorire. Per millenni è stata la socialità spontanea delle comunità, fondata sul loro senso ciclico della vita e del mondo, ad offrirgli l’humus adatto. Questa socialità aveva alla sua base la comune fiducia che tutto ha senso perché tutto si ripete. Ogni esistenza individuale era intesa come richiamo e ritorno di altre vite attraverso le generazioni, ogni evento era sentito come conferma di altri eventi, passati e futuri, in un ciclo eterno in cui ciascun elemento, cielo, terra, uomini, piante e animali aveva una sua parte definita, un suo destino. Il cosmo si rivolgeva nel succedersi delle stagioni e dei ritmi vitali, costituendo uno spazio cavo in cui gli uomini potevano fa risonare la loro voce nella fiducia di riceverne l’eco. Fin dalla notte dei tempi le esperienze salienti dell’esistenza umana: il sacro, il trascorrere delle stagioni, la nascita e la morte, l’amore, la guerra, più tardi anche le lotte sociali - sono state vissute ed elaborate collettivamente nell’epopea del canto. Il canto popolare, nelle sue varie manifestazioni, è stato a lungo il presidio dell’identità e la grande rivalsa dei popoli soggetti nei confronti dei loro dominatori. Si cantava il destino, la necessità delle cose, sotto un cielo risonante, non ancora divenuto “l’abisso orrido immenso” – come lo chiama Leopardi – l’infinito estraneo e senza eco della Modernità. L’organizzazione economica e sociale moderna, con la sempre più spinta strutturazione funzionale delle relazioni sociali, con il suo tempo macchinale-lineare sta distruggendo anche gli ultimi retaggi di quella socialità fondata sul tempo ciclico della tradizione, e pone con ciò fine alle sue espressioni spontanee. Isola e privatizza le esistenze. Perfino la guerra, che è sempre stata ispiratrice di canti popolari - come è stato ancora con le due guerre mondiali, (già più nella prima che nella seconda) - ora è ridotta – per così dire – a fatto privato, di “professionisti” che fanno il loro lavoro di routine. La spontaneità canora popolare non c’è più, perché non c’è più popolo. Al suo posto la massa, fatta di tanti individui soli, ciascuno identificato con il suo ruolo sociale. Il canto e la musica non sono scomparsi, ma sono diventati prodotti industriali offerti sul mercato a consumatori passivi e isolati, anche quando stanno fisicamente accalcati insieme nelle discoteche e nei grandi concerti rock. La sopravvivenza del canto come manifestazione totale umana, sociale ed individuale, non è affatto scontata, e d’altra parte si è ridotta progressivamente la nostra attitudine all’ascolto. Come osserva Karlheinz Stockhausen: “Non siamo più, da molto tempo, una società aurale”. Canto ed attitudine all’ascolto sono due facce della stessa medaglia: fioriscono o deperiscono insieme. Una situazione preoccupante perché il canto e la musica hanno da sempre avuto un ruolo insostituibile nell’educazione delle anime e nella rigenerazione della socialità. Ciò che Lutero diceva della musica - “che scaccia il diavolo e rende lieta la gente; fa dimenticare l'ira, la lussuria, la superbia e gli altri vizi”- vale anche, e forse più, per il canto. Ma accontentarsi di un ascolto passivo e superficiale dei surrogati industriali del canto e della musica sarebbe rassegnarsi a subire il destino di una società di atomi distratti e marginali. In una situazione, come quella attuale, in cui nulla più spontaneamente ritorna e perciò tutto va e si perde, per far rivivere qualcosa bisogna volerlo. Come si può ri - vivere il canto, l’auralità e la memoria di una socialità che non è - non può essere più - la nostra bisogna impararlo. Ci vuole una rivalutazione culturale del passato delle comunità e dei popoli che - a differenza di quella attuata a suo tempo dal Romanticismo - non sia ispirata dalla nostalgia. Perché la nostalgia non conserva veramente il passato: lo trasfigura a suo uso, lo appiattisce sulle esigenze del presente. Non lo rispetta nella sua differenza. Quello del rispetto è sentimento colto: si alimenta con l’educazione, si mantiene e diffonde grazie ad istituzioni, con strategie sociali adeguate: con ricerca e risorse. Rispettare non è solo conservare con cura il patrimonio canoro delle comunità tradizionali del nostro passato, è anche inserirlo nella sperimentazione, renderlo fonte di ispirazione di innovazione e creatività. Insomma farlo davvero dialogare con il presente, anche rielaborandolo e contaminandolo in rapporto alla diversità delle situazioni e della sensibilità di oggi. Purché sia salvata e fatta risaltare la sua essenziale differenza: l’essere esso espressione di una percezione del tempo e delle cose che non è e non può più essere la nostra. Per aiutarci a capire attraverso il confronto se e come è ancora possibile cantare. Se e come è ancora possibile per noi risalire al centro.
Alberto Madricardo
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