“Je so’ pazzo. Pop e dialetto nella canzone d’autore italiana da Jannacci a Pino Daniele” è il titolo del nuovo libro di Marco Aime ed Emiliano Visconti, pubblicato nella collana Risonanze della EDT. Si tratta di una riflessione sull’uso del dialetto nella tradizione espressiva cantautorale del nostro paese – come è evidente nel titolo – ma anche di una raccolta di informazioni sulle declinazioni che assume il dialetto (e, in generale, come ben argomentano i due autori, le tante lingue del mondo, dall’inglese all’italiano) quando diviene veicolo di una forma di rappresentazione (e non solo di comunicazione) articolata, ancorché immediata, come la canzone. Ciò che colpisce – al di là della ricca raccolta di dati – è la cornice storico-culturale e politica entro la quale Aime e Visconti hanno analizzato i ruoli e le forme dei dialetti nella canzone d’autore. Ruoli e forme collocati dentro una prospettiva storica che tocca i grandi nomi della musica popolare internazionale (dagli immancabili Woody Guthrie, Pete Seeger e Bob Dylan, fino a Leonard Cohen, Fabrizio De Andrè, Francesco De Gregori, Francesco Guccini, Rino Gaetano e molti altri) e che, quando si arriva a parlare degli esempi più rappresentativi della nostra tradizione, assumono un profilo determinato e riconoscibile. Come ci dicono loro stessi, nei casi più interessanti l’uso del dialetto si configura come il vettore di un’innovazione della grammatica del cantante e del suo intero canzoniere. Il quale canzoniere assume, una volta rielaborato attraverso il “nuovo” registro dialettale, una forza inedita, che gli deriva principalmente dal paradosso entro cui si matura l’innovazione e dal fatto di comporsi di elementi autonomi e ampiamente diffusi. Questi due aspetti sono semplici ma centrali nella riflessione degli autori e, in generale, nelle dinamiche di sviluppo delle musiche popolari (qui il termine andrebbe inteso – visto che si parla di sfumature linguistiche - più in senso anglosassone, cioè come “popular”, che è più inclusivo e connota le musiche in senso più contemporaneo). Gli elementi di cui ho accennato sono gli idiomi “locali” che, come con Dylan, diventano in realtà nuovi modi di organizzare il linguaggio attraverso cui ci si esprime, e che esplodono proprio attraverso il paradosso del loro utilizzo: ciò che è innovativo è – soprattutto nei casi italiani, ma non solo – l’insieme degli elementi. Non lo sono gli elementi in sé. È in questo quadro che il dialetto diviene “elemento di discontinuità rispetto alla lingua ufficiale”, soprattutto quando è collegato “a ritmi e sonorità assolutamente estranei alla sua tradizione”. Così comprendiamo le visioni comuni dei grandi innovatori del panorama musicale internazionale (che non interessano evidentemente solo la musica ma, in generale, l’idea, il progetto della rappresentazione): da un lato Dylan – al quale gli autori dedicano il primo capitolo, per argomentare in un quadro storico completo come ha trascinato la tradizione folk americana (insieme a tante suggestioni che ha “incorporato” da tradizioni espressive anche europee, come quella irlandese) in una dimensione urbana, utilizzando allo stesso modo due o più poetiche formalmente divergenti, così come strutture di base, metriche, slang – e dall’altro i Mau Mau, Jannacci e, implicitamente, tutta la tradizione del canto sociale e politico che ha preso avvio in Italia alla fine degli anni Cinquanta. Così come i pan-generi di De Andrè e Pino Daniele, Napoli Centrale, Almamegretta, 99 Posse, Sud Sound System.
Daniele Cestellini
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