Liguriani – Stundai (Felmay, 2014)

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Arco di terra scabra e aguzza la Liguria, terra di passaggio, storico reticolo di collegamenti, di vie commerciali e sonore tra il continente e il Mediterraneo. A raccontarne la natura composita sono i Liguriani. A tre anni dall’acclamato “Suoni dai mondi liguri”, arriva “Stundai”, nuovo opera discografica di questa star band, che allinea alcuni tra i più stimati strumentisti della nuova musica tradizionale italiana. Nei Liguriani s’incontrano le conoscenze, gli stili, le passioni, le esperienze di Michel Balatti (flauti), Claudio De Angeli (chitarra), Filippo Gambetta (organetto diatonico, mandolino), Fabio Rinaudo (musette) e Fabio Viale (voce, violino, percussioni). L’album mostra un quintetto compatto nel suono consolidato dai tanti concerti in giro per l’Europa, che sa essere elegante ma anche energico ed immediato quanto si deve, più attento e vincente nella scelta della track list. I Liguriani spaziano nel mare documentario regionale, scritto ed orale, con creatività e spirito contemporaneo, cimentandosi nella composizione e attingendo ai nuovi autori che hanno rigenerato i repertori tradizionali, e ponendosi ai vertici, accanto a nomi di punta del folk europeo. Abbiamo raggiunto il savonese Fabio Rinaudo, portavoce della band, affabile interlocutore, sempre disponibile quando si tratta di discorrere di musica. 

Fabio, chi è il più “stundäio” dei Liguriani? 
Tutti quanti siamo decisamente “stundai”. Stundäio, che al plurale fa “stundai”, in questa terribile lingua che è il dialetto ligure, è sostanzialmente uno che cambia parere, un giorno ti sorride e un altro non ti saluta, è un po’ lunatico, originale, uno che non riesci tanto ad identificare. 

Tutto ciò trasferito nella musica che suonate? 
Non so se abbiamo trasferito questo nella musica, perché sotto sotto il nostro suono è sempre abbastanza pieno: si potrebbe riassumere come un insieme di chiaroscuri, che ci sono nella nostra musica. Se possiamo intendere come un chiaroscuro il fatto che un giorno lo stundäio ti parla dieci minuti e ti offre un caffè, mentre il giorno dopo non ti saluta nemmeno, allora sì, siamo stundai nella musica che suoniamo. 

Sono passati tre anni dall’apprezzato primo album, “Suoni dai mondi liguri”. Intervallo compositivo naturale? O gestazione più articolata? 
Non siamo legati al mercato della musica pop, dove sostanzialmente devi rinnovare il successo del singolo o tenere alta la bandiera, perché altrimenti i fruitori perdono il ricordo del tuo prodotto. Secondo me nel nostro mercato occorre un tempo giusto: ogni disco ha una sua vita, un suo tempo. Penso che due anni sia il tempo giusto. D’altro canto non è così facile un disco, visto che in senso lato, non facciamo CD con il sogno di diventare famosi… Non siamo oggetto di format televisivi, ci interessa fare la nostra musica. È un lunghissimo percorso di crescita, crescita interiore che si traduce in un linguaggio musicale che coinvolga il pubblico con racconti interessanti, con atmosfere che possano suscitare emozioni, far vivere l’uomo che in loro. 

In sintesi, come presenteresti il disco? 
Ha sicuramente dei momenti riflessivi: è un disco dove cerchiamo sempre di più di portare fuori un’identità ligure, che abbiamo scelto già nel nostro nome. Quindi speriamo sempre di più che attraverso la nostra musica si possa raggiungere quel concetto un po’ etereo, che è legato all’essenza dell’uomo: uguale dappertutto ma declinata in linguaggi sempre diversi, in relazione agli ambiti geografici e ai differenti territori in cui l’uomo vive. 

Aprite l’album con “Fanni a nanna”, una ninna-nanna, che è un po’ una scelta insolita? 
È vero. Abbiamo pensato di iniziare con quel pezzo perché viene cantato in dialetto. Abbiamo pensato che la musicalità della nostra lingua potesse essere una presentazione molto importante, un marchio ben definito. Quindi, abbiamo deciso che questo inizio abbastanza morbido, dove tutto è affidato alla metrica e al suono e alla musicalità della frase della ninna-nanna – perché l’organetto sostanzialmente fa un pedale di bordone – potesse essere una cosa particolare, tale da colpire l’ascoltatore, con la speranza che lo stupore potesse tenere per la durata delle due frasi, quando poi l’arrangiamento del brano inizia a muoversi, la musica ritorna e il racconto si amplia dal punto di vista musicale e dell’orchestrazione. Il brano si chiude con una danza, una bisagna, che ha un bel crescendo. Può essere una bella idea di rappresentare questa Liguria, che per scoprirla, devi andare nel particolare. Questa Liguria che si nasconde, che pur essendo una terra di sole e di male, non ha la solarità del Sud Italia. Il ligure non si offre mai … Ecco che ritorniamo al senso di “stundai”… Questa è la Liguria: pensi di averla scoperta la Liguria: sempre chiusa, con la paura del forestiero. D’altro canto, non c’erano vie di comunicazione normali fine a cento anni fa. C’erano le vie sostanzialmente romane e tutto quello che arrivava dal mare poteva essere pericoloso. Ecco spiegato anche il forte campanilismo tra paese e paese. 

“Minuetto”, un brano seicentesco, e “Pantalino”, probabilmente una danza di epoca settecentesca, provengono entrambi dagli archivi diocesani della Cattedrale di San Lorenzo di Genova. Ci sono ancora luoghi e archivi da esplorare? 
Nell’archivio del Duomo c’è un manoscritto, una sorta di “cahier de dance”, datato 1625 all’incirca, contenente circa trenta-trentacinque brani. È un manoscritto già noto ad altri musicisti, ma di questo manoscritto si erano usati pochi brani e sempre i soliti … Noi lo abbiamo riletto e scelto due brani che non erano stati incisi da nessuno e penso nessuno li aveva ancora suonati. È sempre molto affascinante il riportare al suono oltre che alla luce musica che è rimasta ferma. Quello che ci affascina tantissimo è cercare di “capire” come potesse essere eseguita ai tempi. 
Qual era l’accentazione, qual era il mood giusto. Dopo tanti anni di frequentazione dei linguaggi tradizionali: inglese, francese, irlandese, e più recentemente con lo studio del linguaggio del piffero delle Quattro Province – un repertorio di confine ma fortemente legato alla Liguria – la domanda che sorge è: “Come dobbiamo porci di fronte a questa danza. Basta un attimo e si cade nell’ambito dell’interpretazione filologica della musica antica. Ma non esiste barriera tra una cosa e un’altra: quelle erano danze suonate da chi voleva ballare, musica consumata e fatta per ballare, suonata da tutti. È molto interessante cercare di portare fuori il colore, l’atmosfera, il ritmo giusto, ma deve essere un’interpretazione che tu possa riconoscere come tua. C’è poi il fascino di andare a scoprire altri testi ed altre melodie che possono ancora essere conservate in altri luoghi. Siamo andati a vedere un archivio a Palazzo Spinola di Pellicceria, storica dimora storico di Genova: c’erano due scatoloni pieni di musica. Li abbiamo guardati tutti, raccogliendo alcune cose che senz’altro useremo. Esistono sicuramente altri materiali in giro, piccoli lasciti, ma il nostro Mauro Balma, il faro dei nostri ricercatori, ha raccolto già tanto. 

Nel disco c’è una centralità delle danze, alcune più recenti altre più antiche... 
È inevitabile perché siamo quattro strumenti solisti: cornamusa, flauto, violino, organetto. Tutti e quattro siamo musicisti che hanno piacere di suonare.

Il vostro assetto strumentale inevitabilmente riporta al folk continentale insulare, soprattutto britannico e irlandese. Cosa di quel mondo musicale fate vostro nel reinventare la tradizione? 
Sei andato a toccare uno dei punti cardini della mia vita di musicista. Il folk revival nasce lì e quando usi quell’assetto fai il paragone con coloro che per primi l’hanno portato fuori. C’è poi una tipicità sempre legata all’assetto strumentale: la presenza della chitarra, usata ritmicamente, come l’hanno usata gli irlandesi e gli scozzesi. È una cosa che la gente non coglie subito, ma è questo che ci lega a quel mondo che usa la chitarra in un modo che è assolutamente funzionale. La loro nuova musica tradizionale ha raggiunto dei livelli notevoli anche per l’uso dello strumento chitarra. Quello che abbiamo imparato dalla musica irlandese, che cerchiamo di riportare nella nostra musica, è la modalità di approccio al repertorio della danza: comprendere l’essenza ritmica e melodica del repertorio. 
Stiamo attentissimi a non mettere un abbellimento sulla cornamusa o sul flauto che nell’esecuzione possa riportarci all’Irlanda. Invece, andiamo a ricercare un’identità nostra. È la lezione che abbiamo imparato da Martin Hayes: come si deve lavorare su una melodia per riportarla al suo vero volto, come ripulirla dalle sovrastrutture per restituirle l’essenza melodica e ritmica. Un po’ come avviene nei restauri, dove per comprendere le linee di un monumento o di una chiesa è necessario cercare nel periodo primigenio. In una danza, se c’è la possibilità di vederla danzata va bene, ma è anche importante far suonare la melodia per capire dove ti porta la melodia armonicamente: se è un brano che poggia sulla modalità oppure se è un brano dichiaratamente armonico per verificarne le lontane radici. Mentre nella musica barocca con l’arrivo dell’armonia nel Seicento si parte a ragionare diversamente, nella musica tradizionale, che è frutto di una sedimentazione disordinata, ci trovi mille colori, mille legami all’interno dello stesso pezzo. Non è un’analisi accademica, ma che deve essere fatta col cuore, ma è chiaro che se hai nozioni musicali, queste ti aiutano per indagare. È la lezione più grande che ci portiamo dietro dopo trent’anni e passa di Birkin Tre. È bello poter pensare di trasformare questa musica, affinché possa nutrire anche all’ascolto, senza spogliarla della sua funzione, senza pensare di nobilitarla, che sarebbe un errore enorme: quella musica è così! Se ti devo far ballare, devo rispettare delle esigenze, ma se mi concedi il lusso di ascoltarmi, io cercherò di sottolineare altri aspetti insiti nella stessa melodia! 

Come lavorate sul fronte degli arrangiamenti? 
Sono il frutto di un lavoro collettivo, molto faticoso, perché siamo cinque galli. Allo stesso tempo, ognuno ha delle idee, propone, suggerisce soluzioni e temi. Poi – non per impianto di falsa eguaglianza – a seconda del brano, ciascuno suggerirà ciò che gli è più consono, più naturale. Ecco che si crea un equilibrio in cui il meglio di noi stessi viene rispettato e valorizzato. Filippo, Claudio e Fabio daranno un apporto più legato all’aspetto armonico oppure ad una certa visone derivante dal loro bagaglio culturale. Michel ed io andremo a suggerire altri aspetti legati alla nostra esperienza di solisti e di studiosi della musica irlandese. Io e Filippo portiamo anche il bagaglio della musica francese. Dal confronto e dal suonare viene fuori un arrangiamento che consideriamo buono. 

C’è un brano firmato da Michel Balatti e Claudio De Angeli intitolato “Per Nuto”, dedicato a Nuto Revelli. Quanto sono stai importanti i suoi scritti e la sua vicenda umana? 
Da anni insieme a Mauro Pirovano portiamo in giro uno spettacolo, “Fischia il Vento”, legato ai canti della guerra partigiana. In ambito ligure-piemontese, la Resistenza ha avuto un ruolo molto forte. In Liguria è una cosa che si sente ancora nei ricordi, si percepisce: tante famiglie hanno e tristi racconti da poterti fare. Dalle opere di Revelli trai spunti e insegnamenti meravigliosi. Ovvio che nell’ambito della musica tradizionale, se leggi “Il Mondo dei vinti” hai uno incredibile spaccato di quello che poteva essere la vita in Liguria e in Piemonte cento anni fa. Nel libro di Nuto ho rivisto mio nonno, che era originario della val Varaita. Dopo essere scappato dalla Francia, dove viveva, era stato affittato ad una famiglia di contadini, secondo l’usanza del tempo. Stiamo parlando degli inizi del Novecento. Revelli è una bellissima figura, abbiamo pensato di comporre un valzer da dedicare a lui: era il minimo che potessimo fare. 

Un altro brano cantato su cui voglio soffermarmi, è il tradizionale “Per valli e monti”, un canto di diserzione... 
Si tratta di un brano di probabili origini trentine raccolto da Balma. Poi tornò in auge durante la Prima Guerra Mondiale, diventando patrimonio di tutta l’Italia. Lo stesso testo vale anche per una successiva versione partigiana. Sono brani universali, è una lezione che si ritrova in Scozia, Francia, Norvegia … È il grande problema della coscrizione obbligatoria che il buon Napoleone presentò prima nel Nord Italia e che poi il re sabaudo ripresentò nel Sud. 

Un’altra storia universale è quella di “Battista e Boeri”, due genovesi che si ritrovano su fronti opposti... 
Una cosa che mi ha colpito tantissimo. Avevo letto un libro sulla battaglia di Trafalgar, in cui si raccontava della presenza di italiani, prevalentemente siciliani, napoletani e liguri, ma non solo. Oltre mille marinai combatterono nel 1805 in quella battaglia fondamentale per le sorti della marineria europea. C’erano genovesi e savonesi che si trovarono un po’ con gli inglesi e un po’ con i francesi. Avevo scritto una marcia tempo addietro, che alle mie orecchie suonava molto evocativa. Avendo il brano una sonorità che potrebbe rimandare ad aspetti più nordici, ho pensato che potesse essere una bella liaison: c’era il gioco … perché Giovanni , marinaio di seconda classe, ha combattuto sulla nave inglese “Defense” e Francesco Boeri, farmacista, era imbarcato sulla francese “Formidable”. 

Con “Belle Figge” intraprendete un percorso di uso della forma canzone… 
Sì, “Belle figge di Arbisseua” è una composizione musicata da Fabio Biale, basata su una poesia di uno scrittore savonese, che ci è ignoto. Fabio, da bambino lo ha imparato dal nonno, cultore di poesia dialettale. È un inizio. Lo hanno fatto già musicisti come Maurizio Martinotti e tanti altri. Ci sono tantissimi testi di cui i ricercatori classici come Costantino Nigra non ci hanno dato le linee melodiche. Sono testi anche molto interessanti. Non avendo la melodia tradizionale, penso che sia legittimo provare a rileggerli secondo il proprio sentire. A “Belle figge” abbiamo attaccato un valzer, che ho scritto io, dove suona anche Stefano Valla al piffero: ospitare un maestro come lui, è stato un grande onore per noi. 

Nel finale ritornate a Genova con “Vico Drito Pontexello”, che è una canzone ambientata in una via storica della città, emblema di una Genova che non esiste più... 
“Vico Dritto Pontexello” appartiene al repertorio dei Trilli, il gruppo più importante della canzone popolare in dialetto genovese. I Trilli sono spesso ricordati per il loro repertorio da osteria, goliardico e a tratti un po’ sporcaccione, ancora amato dai genovesi, mentre pochi si ricordano che all’interno del loro repertorio ci sono alcune canzoni drammatiche, venate di un bellissimo e autentico lirismo genovese. Penso a canzoni come “A Cheullia”, “Vico Scüo” e molte altre. Vere perle che ancora nessuno ha pensato di riproporre con uno stile musicale e con una sensibilità attuale. Ci abbiamo provato noi e penso che in futuro torneremo senz’altro a frequentare questo repertorio, che amiamo moltissimo e che è indiscutibilmente una delle anime musicali della nostra terra. La canzone riprende un fatto di cronaca realmente accaduto all’inizio del Novecento. Penso che i Trilli si siano ispirati a una formula di canzone, legata alla malavita e al carcere, ampiamente utilizzata nella tradizione italiana, da nord a sud. 

Sbaglio, o suonate più all’estero che in Italia? E all’estero non suonate solo nei circuiti folk … 
Se non di più, alla pari. All’estero suoniamo prevalentemente festival di musica classica. Abbiamo fatto tutti i più grossi festival come Rudolstadt e Rheingau. Il prossimo anno saremo ad un festival a Norimberga, che dura quattro giorni con centinaia di concerti, e che è un po’ come Celtic Connections in Scozia, dove siamo stati nel 2012. Suoniamo molto in festival trasversali di musica classica. Come me lo spiego? È perché in Germania la funzione del progetto culturale, e quindi musicale, è un aspetto basilare della loro vita sociale. Noi abbiamo la tavola, loro no! A mio parere, tutto il mondo nordico si differenzia, in primis, per questo. Noi non ce ne rendiamo conto, ma quante sagre ci sono da noi? Magari la musica te la mettono mentre stai mangiando. Nel Nord Europa è impensabile! C’è un modo diverso di fruire la musica. Sono curiosissimi di ascoltare musica, di conoscere linguaggi diversi. Inoltre, negli anni Ottanta i buoni tedeschi sono venuti a colonizzare un po’ il ponente ligure. Tanti tedeschi hanno la casa qui. 
A fine concerto, molti si avvicinano e ti vengono a raccontare della loro casa sopra Imperia, ti raccontano dove comprano il vino, dove vanno a mangiare … Hanno un rapporto molto forte con la Liguria. Ci sono paesi della nostra regione che hanno ripreso vita grazie ai tedeschi. Oltre la Germania, abbiamo suonato in Belgio, Svizzera, siamo stati nella Repubblica Ceca, il prossimo anno andremo in Irlanda per due festival. Abbiamo iniziato una linea di management con gli States, altro mercato che si sta aprendo è la Polonia … Il concerto dei Liguriani funziona bene per l’aspetto ritmico, narrativo, meditativo. Ha tanti chiaroscuri, c’è un’alternanza tra tempi ternari e binari, ci sono colori che ci avvicinano all’Irlanda, ma soprattutto colori francesi, riconducibili oltre che al gusto personale, alle storiche connessioni con la Francia. 



Liguriani – Stundai (Felmay, 2014) 
Ecco un salutare antidoto alla piattezza di chi disquisisce di innovazione nella tradizione rimasticando vecchi modelli o imponendosi di nobilitare gli strumenti popolari. Ci pare esemplare la capacità dei Liguriani di personalizzare i brani popolari avendo orecchie attente alla contemporaneità ma anche una forte consapevolezza storica dei rapporti tra colto e popolare, di proporre nuove composizioni in stile tradizionale (la “Monferrina de Paluc” riprende a mo’ di omaggio un tema di Maurizio Martinotti, figura fondamentale nella storia del folk revival italiano), di muoversi in veste di autori di balli e di melodie da far combaciare con i canti provenienti dal corpus documentario. Si coglie un’estetica continentale, talvolta di ispirazione francese (non solo per la presenza della musette bourbonnaise), in qualche sequenza fanno capolino vezzi iberici (i sapori asturiani impressi da Rinaudo nella sua danza intitolata “Giga du spagnollu”). Soprattutto la band ligure si porta dietro un amore-studio per il mondo scoto-irlandese, che si traduce nell’uso ritmico della chitarra, nei colori e nei fraseggi del flauto, in certi passaggi solisti, negli attacchi strumentali d’insieme, nel misurato dosaggio di brani cantati e strumentali. Non è un punto critico, anzi è il riconoscere ai cinque la capacità di interpretare, prendere in prestito riconducendo tutto a casa, fare proprio un approccio alla musica di tradizione orale, come quello delle “terre celtiche” che ha pochi eguali in Europa, e non solo. La musica dei Liguriani si muove, respira, esplora la melodia, gioca su diversi tempi ritmici, è attenta agli equilibri nei registri e all’effetto dei bordoni, sa essere dirompente ma anche evocativa e meditativa (“Battista e Boeri”), ancora porta in sé bei cambi di passo, come in “Per Nuto”, valzer lento che poi diventa più sostenuto assumendo l’andamento di una bourrée. Le dieci tracce raccolgono un canto narrativo (“la Bella Noeva”), una ninna-nanna (“Fanni a nanna”), un canto di diserzione (“Per valli e per monti”), canzoni di matrice popolaresca (“Vico Dritto Pontexello”) e liriche d’autore (Belle figge”) musicate dal gruppo, set di danza che attraversano i secoli: dal XVIII al XXI secolo, toccando i mondi liguri dall’entroterra al mare, e arrivando fino a Carloforte, antico insediamento ligure. C’è poi il maestro Stefano Valla che ci mette direttamente il suo piffero fatato (“Valzer du Riccu”), ma i Liguriani, devotamente, attingono anche al suo repertorio (il magnetico tema di “Polca in Re” e la “Monferrina in sol”). Mettiamola semplicemente:“Stundai” è un gran bel disco. 


Ciro De Rosa
Nuova Vecchia