È l’Irpinia che resiste! Nel programma variegato del festival, si segnala anche lo spettacolo “1799 Brigantaggio 1880 Terra di lavoro”, dove voci, suoni e canzoni e immagini fissano la memoria sul tema dell’emigrazione. Veniamo ora al fronte del palco principale, dicendo subito che non vi parleremo delle ultime due serate, a cui non abbiamo assistito, e che hanno visto di scena il combo reggae italiano Veeblefetzer & The Manigolds (sostituti dell’ultima ora dei danesi Tako Lako), il fascino circense del collettivo britannico Slamboree, gli hip hop swinger Smokey Joe & the Kid, il rapper napoletano Jovine e lo ska di The Bluebeaters. Ecco allora il resoconto di tre serate (14-15-16), partendo col botto: il concerto del trentunenne Seun Kuti, che poi è il minore dei due rampolli dell’icona nigeriana. Seun si muove nettamente nel solco musicale del padre, al quale rassomiglia anche nell’aspetto fisico, nonché per il fatto di imbracciare anche lui il sassofono. La sua musica, che si avvale dell’accompagnamento della storica band Egypt 80, di cui fanno parte alcuni collaboratori del padre, è incentrata sui canoni indistruttibili dell’afrobeat, su cui si innestano schegge jazz di ispirazione davisiana, istanze reggae e hip hop, senza dimenticare brani del Back President. Ad Ariano, Seun non si risparmia: soffia, canta e balla, trovando consonanza nell’anima soul-world di Enzo Avitabile, che in due occasioni lo affianca in scena.
Più tardi, con il Barresi Project ci troviamo in bilico tra manipolazioni elettroniche, dj-set, flauti prog e ritmi di tamburi a cornice. Invece, il ferragosto arianese inizia mettendo sul palco la rock-funk-groove machine dei BundaMove. Nel sound rock-funky-rap del gruppo leccese non c’è traccia del brand Salento, tutto sole e musica e pseudo-tarantolati. L’energia non manca e pure le idee compositive ci sono, purtroppo si avverte una certa ridondanza negli lunghi e tirati solismi e nella persistente ricerca della complicità del pubblico (uno dei cliché più insopportabili della live music degli ultimi anni). Ad ogni modo, la strada è ben aperta per la mezcla incendiaria dell’orquesta Chico Truijllo. Furoreggiano nella scia artistica della nueva cumbia, che poi per la hot band cilena significa un tropical sound propenso a flirtare con rock, bolero, ska e reggae. Non contenti, propongono – per chi il Cile da sempre lo associa al repertorio andino – due classici folk come “Fiesta de San Benito” e “Alturas, con tanto di queña e sikous che si fondono con le ance. Nel mix caliente e un po’ pachankoso non sfigura anche la carosoniana “‘O Sarracino”. È qui la fiesta! Ad un certo punto si aggiunge sul palco anche la chitarra del veterano Oluwagbemiga Alade degli Egypt 80. La costanza del gruppo sono fiati bollenti, voci robuste, corde, tastiera, batteria e percussioni che “costringono” il pubblico acclamante a danzare. Giungiamo alla terza serata dell’AFF, quella che è stato con ogni probabilità il clou della diciannovesima edizione di impronta LatinAfrican.
Ad aprirla è il quartetto (basso, chitarra elettrica, batteria e djembè) del chitarrista e menestrello afro-oriented Sandro Joyeux. L’autore franco-italiano è protagonista di un set gustoso per essenzialità e charme, che attraversa la musica dell’Africa subsahariana, si alimenta al fuoco sacro della chanson francese e della folk song. Sandro tiene il palco, la band lo asseconda e l’ambiente si fa già torrido (nonostante i circa14 °C di Piano della Croce). L’apice ha nome Goumar Almoctar, meglio conosciuto come Bombino. Il trentaquattrenne chitarrista nigerino, che si presenta con una formazione africano-americana (tre chitarre, batteria e basso), è propugnatore di un rock che è debitore in eguale misura tanto ai maestri africani (il compianto maliano Ali Farka Touré e il conterraneo Bebe Adja) quanto agli ascolti rock anglo-americani. Eppure, i primi due brani sono proposti dal musicista di Agadez in set acustico (tamburo, calabash, chitarre, basso e armonica a bocca). Poi inizia il viaggio nel deserto elettrico, che ha portato in vetta il musicista di “Nomad”, di cui si è accorta perfino la stampa mainstream italiana. Dai riff chitarristici inanellati dal cantante e chitarrista tamashek ifoghas si comprende il motivo per il quale in molti si sono lanciati in audaci accostamenti con il chitarrismo hendrixiano, ma c’è tanto Mark Knopfler nel suo stile.
Corde affilate si incrociano, tagliando la notte di Ariano, il drumming è potente, il basso sinuoso, canti ieratici che parlano di una terra violentata dalle guerre, che esortano ad un futuro di pace e comprensione. In sostanza, è un sound che mette d’accordo aficionados della world e solidi rockettari alla ricerca di nuove sensazioni soniche. Siamo tutti sedotti dal tratto ipnotico e melismatico rock a tinte bluesy che avvolge i temi melodici del nigerino. Le lancette segnano le due antimeridiane quando il popolo della club culture si lascia condurre dalla programmazione dei signori della consolle (nelle serate si sono avvicendati sul palco Captain Cumbia, DJ Khalab e Sacha Dieu) che chiudono le ribollenti notti dell’Ariano Folk Festival.
Ciro De Rosa
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