Giorgio Barbarotta - Un Fedele Ritratto (GB Produzioni, 2014)
“Un Fedele Ritratto” è il quinto album solista di Giorgio Barbarotta, cantautore classe ’72 di Treviso, con alle spalle una lunga carriera artistica, iniziata nel 1995 con i Quarto Profilo. Questi ultimi sono un gruppo ancora attivo, la cui musica è stata caratterizzata, fin dagli esordi, da uno stile secco, compatto e strutturalmente rock. Barbarotta, che ha intrapreso la carriera solista nel 2003 (da lì in poi partecipando a vari progetti musicali - come Duemila papaveri rossi, il disco del 2008, composto da brani di De Andrè interpretati da musicisti indipendenti, a sostegno di A/Rivista anarchica - lavorando come produttore e pubblicando libri di poesie e racconti), ha sviluppato le sue produzioni personali attraverso un cantautorato diretto e informale, posato su un tappeto musicale ben lavorato e organizzato - nella prospettiva definita con la sua ex band - sull’interazione degli strumenti principe della tradizione rock: batteria (affidata a Nicola “Accio” Ghedin, già con gli Estra), basso (Stefano Andreatta) e chitarra (Giulio Moro). Queste convergenze caratterizzano anche “Un Fedele Ritratto”, sebbene siano arricchite dalla visione di un artista che riesce ad ampliare i riferimenti della sua ispirazione. Che riesce ad articolare e coordinare suggestioni differenti, passando - senza minare l’equilibrio che sorregge la successione dei dodici brani che compongono il disco - dentro soluzioni armoniche, arrangiamenti, atmosfere che richiamano anche alcuni echi di blues e jazz intimistico. Sopra queste strutture si allungano, come teli trasparenti e cangianti, i testi di Barbarotta, che intrecciano un racconto personale, definito da una narrazione molto ritmata e diretta: “La stanchezza è una bambina dai modi gentili e i denti a punta/ e la striscia bianca sull’asfalto è un po' serpente e un po' gazzella/ mi impalla”. Una narrazione che nella sua linearità è capace di restituire gli elementi (come matrici) che definiscono lo scenario entro cui si muove il cantautore di Treviso. Una riflessione notturna, spesso solitaria e descrittiva (“la desolazione nei cartelli o nelle insegne in autogrill”). Un incedere pensieroso e intimo (“Mentre l’attesa di una nuova fonte di illusione si allontana/ profuma di rivalsa l’aria che ci sveglia”).
Daniele Cestellini
Leo Pari – Sirena (Gas Vintage Records, 2013)
Cantautore trentacinquenne romano, Leo Pari è noto sia per la sua collaborazione con Beppe Grillo (a lui ha dedicato “Ho Un Grillo Per La Testa”, usata come sigla finale degli spettacoli del 2006, e “V-Day” inno della manifestazione omonima), sia per la sua etichetta la Gas Vintage Records, che ha prodotto l’esordio dei Discoverland, alias Roberto Angelini e Pier Cortese. Ad appena un anno di distanza da “Resina”, che apriva una ideale trilogia, arriva il secondo volume “Sirena”, quarto album in carriera, nel quale sono confluite dieci canoni nuove di impostazione folk-rock, nelle quali si intrecciano storie d’amore, spaccati introspettivi, racconti autobiografici, senza tralasciare qualche accenno alla realtà che ci circonda. Se dal punto di vista stilistico i riferimenti spaziano da Ivan Graziani a Max Gazzè fino a toccare Antonello Venditti, l’ascolto rivela un sound molto curato tra echi vintage, pop e canzone d’autore, nel quale spicca l’uso di mellotron, sintetizzatori ma anche lap steel e pedal steel, suonate da Roberto Angelini. Aperto dal pop d’autore della battistiana “Piccolo Sogno”, il disco ci regala subito una bella sorpresa “Cara Maria”, un brano che farebbe la felicità di Antonello Venditti, se ancora riuscisse a scrivere brani come quelli degli anni d’oro. Non mancano altri brani di ottima fattura come la ballata “L’Uomo Di Niente”, l’intensa “C.U.O.R.E.”, e il folk-rock di “Sapessi Innamorarti Di Me”, e l’eccellente rock – ballad “Assholo”, che dimostrano come Leo Pari, pescando a piene mani nella migliore tradizione italiana, riesca a trarne ispirazioni importanti, snocciolando canzoni di ottima fattura, che nulla hanno da invidiare agli artisti che scalano le classifiche nella nostra nazione.
Salvatore Esposito
Leo Folgori – Vieni Via (Beta Produzioni - Folgori, 2014)
Leo Folgori è un cantautore evidentemente legato a doppio filo alla tradizione musicale italiana e americana. Una doppia “vocazione” che emerge dal suo stile che, sebbene richiami i numi della poetica musicale internazionale (si sentono i “nostri” migliori, da De Gregori a De Andrè, e quelli a cui loro stessi, in alcuni casi, si sono ispirati, da Dylan a Young), si caratterizza in modo molto personale e originale. Attraverso soprattutto un interessante “classicismo” melodico e, allo stesso tempo, la ricerca di una “secchezza” anti-retorica degli arrangiamenti. L’originalità esce spesso in piccoli angoli di testo, che illuminano il racconto di scene quotidiane, “diffuse”, condivise, ma anche intime, infilzate e sollevate dalla visione un po' strabica e amara di questo artista di Roviano (in provincia di Roma). In alcuni casi Folgori si lascia trasportare da un mare di parole, che richiamano la geniale irriverenza di un Rino Gaetano contemporaneo, citando nello stesso multiforme racconto Nietzsche, brigatisti e “reggomani” (“Autobahn - Omaggio a P. V. Tondelli). In generale, nello scorrere delle dodici canzoni che compongono Vieni via, osserviamo lo scorrere di interazioni ravvisabili a ogni angolo di strada, restituite dentro una combinazione di immagini variamente sfocate e a tratti abbaglianti. Immagini e storie che al realismo mescolano una capacità interpretativa non comune. E generano una sorta di commento rauco, attento ai dettagli e allo stesso tempo impulsivo. Le costruzioni musicali aderiscono perfettamente alle narrazioni testuali: variano spesso e - se si esclude l’effetto western de “Il ballo del serpente” e qualche ritorno più elettrico qua e là, come in “Notturno cittadino” - si possono ricondurre a una vocazione acustica e, come dicevo sopra, “tradizionalmente" melodica. La strumentazione, d’altronde, si presta a questa suggestione e amplifica - creando un solco comodo dove si adagia la voce profonda e sussurrante di Folgori - le potenzialità della migliore tradizione cantautorale internazionale: chitarra, ukulele, banjo, contrabbasso, fisarmonica, pianoforte, fiati (basso tuba, trombone, sax baritono, tromba, clarinetto, flauto traverso).
Daniele Cestellini
Renato Franchi & Orchestrina del Suonatore Jones – Le Stagioni Di Anna (Latlantide, 2014)
Prosegue febbrile ed appassionata l’attività discografica di Renato Franchi e della sua Orchestrina del Suonatore Jones, andando di pari passo ai loro apprezzatissimi concerti, e a distanza di poco più di un anno da “Filastrocche Scritte Per Strada”, li ritroviamo alle prese con “Le Stagioni Di Anna”, album nato dopo un viaggio/concerto nei campi di concentramento tedeschi di Auschwitz e Birkenau del Gennaio 2011, e dedicato al coraggio e al sorriso di Laura Prati e Adriana Cavalieri. Il disco raccoglie tredici brani tra originali e riletture, che nel loro insieme compongono un vero e proprio concept album sulla grande tragedia della Shoà. Ad impreziosire il tutto è la presenza di alcuni ospiti d’eccezione come il jazzista Max De Aloe, il batterista Gianfranco D’Adda, Alberto Bertoli, la tromba di Fabio Beltramini, nonché lo scrittore e giornalista Claudio Ravasi e la ricercatrice storica Nicoletta Bigatti. Ad aprire il disco è l’intensa title-track, a cui seguono, quasi fosse un antologia della canzone d’autore italiana le belle versioni di “Auschwitz” di Frnacesco Guccini, la struggente “Sei Minuti All’Alba” di Enzo Jannacci, “Varsavia” di Pierangelo Bertoli cantata con il figlio Alberto, “Ciao Amore Ciao” di Luigi Tenco, fino a toccare il folk-rock dei Gang con “La Pianura Dei Sette Fratelli”, e la splendida “Se Questo E’ Un Uomo” di Massimo Bubola. Completano il disco “Il Disertore” di Boris Vian, “Futuro Bella Sposa” di Max Manfredi”, l’immarcescibile “C’era un ragazzo che come me amava i Beatles e i Rolling Stones” di Gianni Morandi, e una intensa versione di “Cercando Un Altro Egitto” di Francesco De Gregori. “Le Stagioni Di Anna” è la dimostrazione dell’amore sconfinato che Renato Franchi nutre per la canzone d’autore militante, ma è anche una preziosa occasione per rileggere un pezzo importante della nostra storia attraverso alcuni dei brani più belli dedicati al momento più drammatico della Seconda Guerra Mondiale.
Salvatore Esposito
Giacomo Lariccia – Sempre Avanti (Autoprodotto, 2014)
La storia di Giacomo Lariccia è una di quelle che meritano di essere raccontate, non solo perché alla base c’è una grande passione per la musica e la canzone d’autore, ma anche per il fascino intrinseco che racchiude il suo percorso artistico. Partito da Roma, la sua città Natale, dopo un viaggio in autostop, chitarra in spalla, per le strade di mezza Europa, giunge a Bruxelles, e lì scatta la scintilla che lo fa innamorare di questa città, dove arriva a diplomarsi in chitarra jazz, e a pubblicare il suo primo disco. Il passo verso la canzone d’autore è poi brevissimo e già nel 2011 pubblica il suo secondo album, “Colpo Di Sole”, questa volta di impronta prettamente cantautorale, e che gli apre la strada per le finali del Premio Tenco e Premio De Andrè. A tre anni di distanza, arriva il suo secondo album “Sempre Avanti”, disco nato grazia ad una campagna di crowfunding e che raccoglie tredici brani nuovi di zecca, in cui si intrecciano temi di impegno e denuncia sociale, con le storie degli emigranti italiani in Belgio e il loro duro lavoro in miniera. Proprio ai minatori italiani in Belgio, è dedicato il cuore del disco con quattro splendidi brani, ovvero “Dallo Zolfo Al Carbone” in cui canta dei siciliani che sfuggivano alla miseria della loro terra, l’intermezzo “La Miniera” che apre “Sessanta Sacchi Di Carbone”, nel cui testo viene evocato il cartello esposto nei locali pubblici belgi con scritto “vietato l’ingresso ai cani e agli italiani”, e la poetica “Sotto Terra”. Alla sua città di adozione è dedicata poi “Bruxelles”, quasi a raccontarci l’altra faccia, quella accogliente, del Belgio. Uno dei vertici del disco arriva con l’ironica e pungente “La Fine Del Mondo” in cui spaziando attraverso i sette peccati capitali fa capolino anche l’ex premier Berlusconi e le sue cadute di stile, tuttavia pregevoli sono anche “Piuttosto” che mette alla berlina il tipico uso improprio milanese di questo avverbio, la trascinante “Il Primo Capello Bianco” e il mambo conclusivo “Mambo Della Gonna Di Marylin Monroe”. Insomma, in questo secondo album Giacomo Lariccia ci dimostra di aver raggiunto la sua piena maturità artistica e siamo certi che nel prossimo futuro si saprà ritagliare un posto di rilievo nella canzone d’autore italiana.
Salvatore Esposito
gaLoni - Troppo Bassi Per I Podi (29Records/MArteLabel/Goodfellas, 2014)
Fattosi conoscere con il suo disco di debutto “Greenwich”, Emanuele Galoni meglio noto semplicemente come gaLoni, è un cantautore della provincia di Latina, con una solida formazione artistica fatta di tanta gavetta, e dotato della particolare dote di sapere coniugare e contrapporre il realismo e un po’ di sana follia e surrealismo. Il suo nuovo album “Troppo Bassi Per I Podi”, nasce dalla collaborazione con il produttore e polistrumentista Emanuele Colandrea (batteria, strumenti a corda, armonica, cori, tastiere, glockenspiel) e raccoglie undici brani, incisi con la partecipazione di Valerio Manelfi (basso acustico), Lorenzo Mancini (contrabbasso), Carmine Pagano (trombone&tuba), Simone Nanni (tromba), Andrea Ruggiero (violino) e Erika (coretti). Si tratta di canzoni, composte negli ultimi due anni, che riprendono il discorso cominciato con il disco di debutto, ma con una prospettiva diversa, infatti i protagonisti non tentano di spostare il meridiano zero, ma camminano sui tetti, dove guardano il mondo da una posizione instabile, raccontando “storie precarie, mercati americani e geografie di una generazione”. L’ascolto rivela un songwriting in cui si intrecciano, confondono e si contrappongono realismo e surrealismo, il tutto condito da una sana dose di follia. A spiccare in modo particolare sono senza dubbio “Carta Da Parati”, che celebra le bellezze nascoste di Roma, la riflessione sulla relatività del viaggio de “I Navigatori”, e la splendida “Primavere Arabe”. “Troppo Bassi Per I Podi” è dunque una buona tappa intermedia per gaLoni, dimostrando chiaramente come abbia tutte le carte in regola per il prossimo salto verso la maturità artistica.
Salvatore Esposito
Fabio Gualerzi – Fabio Gualerzi (Autoprodotto, 2014)
Innamorato del roots rock americano, ma anche del cantautorato texano di Ryan Bingham, Fabio Gualerzi, dopo diversi anni di attività con gli Statale 9, debutta come solista con il disco omonimo, nel quale ha raccolto dieci brani autografi, scritti in italiano, ed impreziositi da sonorità country-rock in cui si mescolano i suoni del Lone Star State e quelli del southern rock. Si tratta di un lavoro che nasce dopo diversi anni in cui il cantautore emiliano ha macinato chilometri e concerti, aprendo spettacoli per artisti americani come Michael McDermott, Rod Picott, Amanda Shires e Two Cows Garage, e che riflette le sue passioni, le sue esperienze, ma soprattutto ci svela tutta la sua solidità musicale, nell’aver saputo raccogliere la sfida di unire la lingua italiana al roots rock. Registrato e mixato al Dude Studio di Stefano Riccò, il disco è stato inciso con un folto gruppo di strumentisti, composto da: Luca Cerioli, Francesco Predieri, Stefano Arduini (Chitarre Elettriche), Andrea Signorelli (basso), Simone Pezzi (batteria), Marco Sforza (piano Rhodes e organo Hammond), Mattia De Medici (violino), Marcello Ghirri (banjo), Eugenio Poppi (pedal steel guitar), e Silvia Borelli (voce), i quali hanno contribuito in maniera determinante alla solidità del sound. L’ascolto rivela un pungo di canzoni in cui Gualerzi racconta a cuore aperto, ed in modo semplice e diretto, le sue esperienze di vita tra speranze e delusioni, mettendosi a nudo con sincerità. A spiccare durante l’ascolto sono senza dubbio la ballad midtempo “La Stanza #43”, ma anche la ballata “Credi Nel Destino”, due facce della stessa medaglia, che ci mostrano tutta la versatilità del cantautore emiliano, che non manca di sorprenderci con brani come la notturna “Notte”, o il country-rock “Noi” in cui spicca il bell’intreccio tra banjo e chitarre. Vertice del disco sono la melodica “La Voce Di Questo Demone” e la conclusiva “Il Suo Tempo”, nelle quali è possibile cogliere la prospettiva futura del songwriting di Gualerzi, che con questo disco ha piazzato la pietra angolare di una carriera che si preannuncia assolutamente interessante.
Salvatore Esposito
Valerio Billeri - Acque Alte (JRB Roma, 2013)
Cantautore romano, innamorato della roots music, e con alle spalle una ormai ventennale attività artistica, Valerio Billeri ha all’attivo numerose collaborazioni e ben tre dischi tra cui spicca “Vintage Radio” del 2012, realizzato per raccogliere fondi per la ricerca scientifica alla lotta per la lesione al midollo spinale, e caratterizzato dalla presenza di alcuni ospiti d’eccezione come Paolo Bonfanti, Massimiliano LaRocca, Antonio Zirilli i Balstwaves e Willie Nile. Nel novembre dello scorso anno, Billeri ha dato alle stampe il suo quarto album “Acque Alte”, che raccoglie otto brani incisi con la partecipazione di Duccio Grizzi (mix percussioni e effetti), Gianni Ferretti (organo, piano, e tastiere), Alessandro Cefalì (contrabbasso e basso),
Damiano Minucci (chitarra elettrica), e Plinio Napoleoni (chitarra elettrica). Destreggiandosi tra chitarra acustica e slide, Billeri ci racconta le sue storie intessute di trame roots, country e blues, nelle quali si spazia dalla poetica “La Passione Secondo Pier Paolo Pasolini”, che apre il disco, alla riscrittura in italiano del traditional settecentesco “Black Jack Davie” fino a toccare la dilaniana “Acque Alte”. Tra i brani più intensi del disco meritano certamente di essere citate la ballata narrativa “Solferino” in cui Billeri racconta la storia di un disertore, l’intensa “Oscuro Il Tuo Disegno”, e quei due gioiellini folkie che sono “Tempesta” e “Pequod”. Chiude il disco la bella versione de “La Canzone del Deserto” di Luigi Magni e Angelo Branduardi, che suggella un lavoro senza dubbio interessante, nel quale sono raccolte un po’ tutte le passioni di Valerio Billeri, la canzone d’autore italiana come la roots music, e per non farsi mancare nulla anche una buona dose di country e blues.
Salvatore Esposito
Giuliano Vozella – Ordinary Miles (Workin’ Label, 2014)
“Ordinary Miles” è il secondo album solista di Giuliano Vozzella, e che giunge a due anni di distanza da “Notes Through The Years”. Si tratta di un lavoro che prosegue il percorso di ricerca sonora del precedente, spaziando dal folk al blues passando per il jazz, il tutto condito da una cifra stilistica molto personale, che non lesina ammiccamenti verso melodie dagli echi pop. Un songwriting acustico e melodico, ma allo stesso tempo qualitativamente alto, che si estrinseca in brani come la trascinante “The Maze”, che apre il disco e subito ci regala uno splendido assolo di clarinetto, mescolando Sting, Kings Of Convenience. La melodica e radiofriendley “Daily Routine”, ci conduce prima al trascinante rock acustico di “This Green Garden” e poi alla dolcissima ninna nana “Lullaby For You”, in cui il gusto melodico tipico del cantautorato inglese incontra la ballata americana, il tutto impreziosito dal pianoforte che contrappunta le trame acustiche. Se la title track è un altro esempio di grande originalità compositiva, la seguente “Juliet Is Here” è uno strumentale in cui Vozella ci svela in tutto il suo fascino il suo personale stile chitarristico. Il disco regala altri momenti di godimento come nel caso della più movimentata “Dear Home” e della conclusiva “More To Say”, ma il vero vertice arriva con la splendida “The Art Of Travelling”, in cui spicca un eccellente assolo di chitarra elettrica. “Ordinary Miles” è, dunque, un esempio di cantautorato pop illuminato, nel quale gusto melodico, ricerca musica e pregevole tecnica chitarristica convivono in modo eccellente.
Salvatore Esposito
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