Anna Nacci, da Tarantula Rubra all’Orchextra Large

Musicista, sociologa, counselor, nonché conduttrice radiofonica, Anna Nacci è autrice di alcuni interessanti saggi sul Tarantismo, ma soprattutto è una eclettica animatrice culturale impegnata in numerosi progetti dal seguito programma “Tarantula Rubra” su Radio Onda Rossa, al famoso esperimento di consueling “Jesce Fore” fino alla recentissima avventura con l’Orchextra Large. In occasione della pubblicazione del libro “Suono Chi Sai” sul rapporto tra musica e consueling, abbiamo intervistato Anna Nacci per approfondire con lei le tante attività in cui è impegnata. 

Sei una pianista e una sociologa, com'è nata la tua passione per il tarantismo, e quali sono stati i tuoi studi e le tue ricerche a riguardo? 
Il tarantismo, più che una passione, è un elemento che interviene nella composizione della mia cultura di appartenenza. Sono salentina, di Ostuni, e nel mio paese tanti suonavano la pizzica per terapizzare i cosiddetti tarantati. Inoltre possiamo annoverare “La pizzica di Ostuni” quale una delle pizziche più coinvolgenti nel panorama delle pizziche tradizionali del Salento. Ci ho tenuto molto a pubblicarla nella mia prima compilation “Tarantula Rubra”, eseguita dagli Arakne Mediterranea, all’epoca coordinati da Giorgio di Lecce, con la presenza di uno dei più grandi tamburellisti della storia italiana, nonché mio compaesano e carissimo amico, Pierangelo Colucci. Tornando alla tua domanda, non posso non parlare di Radio Onda Rossa, la storica emittente romana alla quale ho bussato nell’ottobre del 1999. Sai, le cose non accadono mai per caso. Vivevo a Roma da un anno e la mia parte creativa di musicista non riusciva a trovare una collocazione in una metropoli caotica e spesso angosciante per via delle difficoltà relazionali che ogni metropoli porta con sé, per il solo fatto che sono metropoli. 
Tarantula Rubra
Così mi è venuto il desiderio di proporre un programma che parlasse di musica popolare, a partire dal tarantismo e dalle pizziche, per spiegare come mai un rituale tanto antico e condiviso in tanti paesi del mondo, dove l’ultima roccaforte era il Salento, fosse andato perduto, lasciandoci in eredità giusto la testimonianza musicale. La redazione era un po’ sorpresa per la mia proposta, soprattutto perché in genere passavano musiche di tutt’altro genere. Ma mi fecero fare un paio di trasmissioni “pilota” (all’epoca ero munita di audiocassette) e cominciai così a mandare musica e a parlare de “La terra del rimorso” di De Martino. La redazione, molto più di me, rimase sorpresa dell’ascolto partecipato ed entusiasta che il programma riscosse, tant’è vero che dopo solo 4 mesi di trasmissioni mi proposero di scrivere un piccolo saggio, accompagnato dalla prima compilation, per l’appunto “Tarantula Rubra”, che è ancora oggi il mio programma radiofonico per Radio Onda Rossa. È per via di questo inaspettato interesse da parte degli ascoltatori che ho ritenuto chiamare con il neologismo di “Neotarantismo” quel movimento che vede migliaia di persone di diverse provenienze ballare pizziche, tammurriate e tarantelle; da lì sono stati organizzati seminari, convegni, concerti, oltre che pubblicati ulteriori saggi, articoli e CD. Dopo aver parlato per alcuni anni di tarantismo e Neotarantismo, la trasmissione radiofonica ha cominciato a intraprendere vari studi antropologici inerenti i più disparati rituali di tutto il pianeta, coinvolgendo la musica, la transe e gli argomenti ad essi correlati. È stato appunto a partire dal primo convegno organizzato nel 2000 che ho avuto la fortuna e l’immensa gioia di collaborare con Georges Lapassade, fino a quando nel 2008 non ci ha lasciati. 

Anna Nacci e Gabin Dabirè
La musica popolare è stata la molla che ha fatto nascere l'ormai famoso progetto "JesceFore", nel quale tu in prima persona e gli altri musicisti coinvolti avete dato vita ad una serie di laboratori musicali per i detenuti di Rebibbia... 
È stato il progetto più entusiasmante che abbia mai realizzato fino ad oggi. Era il 2006 quando ormai ritenevo che la pizzica fosse stata abbondantemente usata e abusata, nonché spesso ridicolamente commercializzata. Come dicevo prima, nulla arriva per caso, ed era quello il momento giusto per ripensare alla musica popolare quale terapia per curare malesseri che, oggi come allora, derivano da fattori sociali, relazionali. È stata la mia prima esperienza in assoluto di counseling di gruppo con l’utilizzo della musica quale strumento d’aiuto per lo scioglimento dei nodi e per la visualizzazione delle emozioni. Le emozioni sono quelle cose che di norma la maggior parte di noi reprime, o sottovaluta, o nasconde; diciamo che non vengono rispettate e individuate come dovrebbero. Proviamo a pensare quale collocazione e riconoscimento possano avere in uno stato di detenzione, con i conseguenti atteggiamenti relazionali. “JesceFore” è stato inoltre in assoluto il primo esperimento di terapia trattamentale condotto in un carcere, un programma che prevedeva l’utilizzo della musica associato a percorsi di risocializzazione e di introspezione di gruppo. Nella conduzione del progetto mi sono avvalsa della collaborazione dei Maestri Vincenzo Gagliani e Gianluca Casadei, già componenti del Tarantula Rubra Ensemble, i quali si sono messi in gioco anche loro con grande generosità e disponibilità in un’avventura per loro nuova e – per tutti noi – un grande momento di crescita. Il progetto poi si è avvalso della collaborazione di grandi musicisti quali Antonio Infantino, Teresa De Sio, Nando Popu, alcuni componenti della Taricata, Luigi Cinque, Raffaello Simeoni, Rodolfo Maltese, Antonello Ricci, Ettore Castagna, Rocco Capri Chiumarulo, Piero Ricci, Mimmo Epifani, MohssenKassirosafar, Marcello Colasurdo, GabinDabirè, Alessandro Cercato, e gli indimenticabili Maurizio Rota e Marcello Vento. 

"Jesce Fore" è diventato poi un libro e un disco, come valuti questa esperienza a distanza ormai di qualche anno? 
E’ sorto subito il desiderio di narrare il meraviglioso percorso portato avanti per il primo anno a Rebibbia Nuovo Complesso, sezione maschile, quindi è nato un libro contestualmente al CD che abbiamo inciso con i detenuti e gli ospiti che ci hanno accompagnato durante quell’anno; il tutto accompagnato anche da un DVD che ha vinto il primo premio all’Epizephiry Film Festival come miglior documentario. Poi l’anno successivo abbiamo cercato di continuare il laboratorio a Rebibbia e, nello stesso anno lo abbiamo intrapreso nel carcere dei Ravenna. Non solo noi, ma tutti coloro che hanno preso visione del progetto, riteniamo che tali percorsi dovrebbero far parte dei programmi di riabilitazione dei detenuti. Ma tutti sappiamo bene come il carcere sia un’istituzione che non rispetta assolutamente le motivazioni per le quali esiste. Mi spiego meglio: punizione ma non riabilitazione, repressione ma non risocializzazione, oppressione ma non rivalutazione dell’individuo, ricatti ma non rispetto. C’è da dire che siamo entrati in quello che viene ritenuto il carcere più “disponibile” ai progetti provenienti dall’esterno (riferendoci a Rebibbia), ma non possiamo non denunciare che c’è stato il totale disinteressamento economico da parte delle istituzioni preposte affinché il progetto potesse essere continuato e sostenuto; per non parlare del mancato interessamento da parte del DAP di appartenenza e del Ministero di Giustizia. Non dilunghiamoci poi dal commentare come le carceri costituiscano (e soprattutto quelle più grandi) un enorme business, e di come mantengono vivi forti interessi che esulano completamente da quello che dovrebbe essere il primario obiettivo della detenzione. Purtroppo “Jesce Fore”, che ha visto dei successi incredibili dal punto di vista del miglioramento delle relazioni e dell’abbassamento del tasso di aggressività delle persone detenute coinvolte, non è riuscito a perpetrarsi e diffondersi come auspicato, così come invece avviene nelle carceri di altri paesi europei dove i ministeri e le direzioni carcerarie sono alla continua ricerca di progetti utili a perseguire gli obiettivi previsti. 

Tarantella dei Fratelli 
Quali sono state le difficoltà che hai incontrato nell'operare in un contesto difficile come Rebibbia? 
Cominciamo dalla cosa più bella, vale a dire che lavorare con i detenuti è stata la cosa più semplice, più coinvolgente e più emozionante. Quando l’essere umano decide di mettersi in gioco, e capisce che quello è il momento giusto per intraprendere un percorso di crescita e cambiamento, lo fa debellando tutte le diffidenze e le ritrosie del caso, anche a costo di rivendicare dei diritti sacrosanti che, purtroppo, in carcere vengono assolutamente calpestati. Il gruppo “JesceFore” è diventato una realtà che ha amato il progetto a tal punto di correre dei rischi che avrebbero potuto penalizzare i loro permessi, le possibilità di vedere i loro cari, e tanti piccoli altri diritti che per loro erano vitali. Nella sala musica dove ci si vedeva settimanalmente per due ore c’era il profumo della vita, la sensazione viva della libertà, l’emozione della creatività e della collettività, la condivisione dei momenti più pregnanti che hanno segnato la crescita di tutti. Fuori da quella sala il mondo era un altro, era l’inferno, era il dover affrontare la stupidità e la povertà dell’essere umano che indossava il simbolo del potere; la burocrazia dell’amministrazione penitenziaria che spesso collideva con il corpo di polizia; l’invidia quando non anche la nocività di alcuni componenti delle équipe che avrebbero dovuto aiutare i detenuti; così come anche il potere inossidabile di alcuni che indossavano l’abito talare, un potere anche più grande di quello dei dirigenti penitenziari. Abbiamo dovuto subire momenti frustranti e vessazioni che ci costringevano al silenzio, sapendo che dopo dieci cancelli e tonnellate di stupidità umana avremmo trovato la gioia dei detenuti di vivere con noi momenti indimenticabili. 

Jesce Fore con Paolo Modugno
Quanto sono importanti queste attività in ambito carcerario? 
Non direi importanti, ma vitali. Così come il teatro ormai da tantissimi anni, e tutte quelle attività che facilitano le possibilità per i detenuti di rivalutarsi e di conoscere loro potenzialità mai esperite prima, sono attività che corroborano la ricostruzione dell’autostima (del tutto cancellata) e la riacquisizione del senso di collettività. Se l’istituzione carceraria non prevede e non permette la realizzazione di tali attività, è evidente quello che oggi abbiamo sotto gli occhi: un inferno, un luogo di tortura e perdizione tale per cui l’essere umano potrebbe facilmente perdere ogni speranza di pensare ad una vita che valga la pena di essere vissuta con consapevolezza e dignità. È un continuo alimentare odio, rabbia, violenza, frustrazioni, disistima, rancore, fatue costruzioni di onnipotenza quando non di reali e profonde situazioni di depressione. 

Come nasce il progetto di counseling "Suono Chi Sai"? 
Il counseling relazionale a mediazione artistica non è molto diffuso. Diciamo che anche qui ci avventuriamo in una proposta nuova che vede nuovamente l’utilizzo della musica quale strumento straordinario che facilita le sedute di counseling per lo scioglimento dei nodi e la visualizzazione delle emozioni. Partendo proprio dall’esperienza in carcere, ho cercato di trasferire l’utilizzo della musica nelle sedute singole o con coppie di consultanti. L'attuale nostro periodo storico è dominato dalla solitudine, dall'incomunicabilità e dalle relazioni virtuali. Quanto più sembra che la comunicazione sia facilitata da cellulari, chat, internet, social network e altre modalità tecnologiche di ultima generazione, tanto più la gente ha difficoltà a comunicare e instaurare relazioni reali, concrete, profonde. 
Jesce Fore
La dipendenza da dispositivi elettronici e social media ci distrae dal vero mondo, a tal punto che è sempre meno facile guardare una persona negli occhi. Il nostro sguardo è spesso rivolto a uno smartphone o un tablet, finanche nei momenti chiave deputati alla comunicazione e alla socialità. Il counseling è uno strumento per restituire potere alla comunicazione vera, agendo sull'intelligenza emotiva e relazionale. Con il counseling, chi ha deciso di mettersi in gioco ha l'opportunità di osservare il proprio disagio da altre angolazioni, scorgendo così nuove letture e possibili risoluzioni. Sarà egli stesso che saprà dire cosa ritiene meglio fare. Le sedute di counseling prevedono l'utilizzo di alcune tecniche utili per facilitare la consapevolezza delle proprie emozioni e il conseguente scioglimento dei nodi, dai quali derivano i disagi del nostro quotidiano. Ho voluto arricchire la cassetta degli attrezzi del counselor col mio strumento preferito: la musica. I suoni si trasformano in emozioni, quindi ogni individuo risponde in maniera personale all'ascolto dello stesso messaggio musicale, perché "ascoltare" è un atto psicologico. Ognuno di noi ha reazioni soggettive a livello fisiologico, affettivo e culturale in presenza di stimoli acustici. Con l'ascolto della musica giusta al momento adeguato, sarà possibile evocare emozioni, sensazioni e memorie che potranno aiutarci a fare luce su particolari momenti cruciali della nostra vita. 

Come si svolge una tipica seduta di counseling? 
Jesce Fore ospite Antonello Ricci
Avviene soprattutto quando il consultante (colui che in genere viene chiamato “cliente”, ma che è un termine che non ritengo tanto appropriato a chi decide di venire in consultazione) decide che è giunto il momento di affrontare i propri disagi. Vi è disagio psicologico quando non sappiamo gestire ciò che ci giunge dall'esterno, quando non riusciamo a rispondere alle domande delle esperienze che viviamo, per cui ci sentiamo incompleti, avvertiamo un malessere. Spesso viviamo, di conseguenza, disagi psico-fisici. Ma il disagio è una grande chance, è il segnale che qualcosa necessita di cambiamento, che si avverte l'esigenza di crescita come anche di evoluzione; che bisogna risistemare le credenze e le convinzioni rispetto alla vita, agli avvenimenti, alle persone, alle cose. Tanti di noi si attaccano alla sofferenza, al malessere. Ritengo quindi che giungere alla decisione di dover cambiare qualcosa è un momento molto importante. Il counseling è l'attività che ha per obiettivo quello di migliorare la vita di chi ha deciso di mettersi in discussione; è una possibilità rivolta non solo al singolo, ma anche alle famiglie, alle coppie, ai gruppi; è una pratica per la risoluzione di conflitti e difficoltà a livello personale, aziendale, scolastico, sanitario. Il counselor è il professionista che crea le condizioni per favorire la libera espressione delle emozioni, che ascolta senza giudizio, che non interpreta. È colui che mette in funzione l’arte maieutica di estrarre le potenzialità presenti in ogni essere umano. E' colui che lavora per riorientare la persona che vuole riprendere la guida della propria vita a partire dal problema, verso la risoluzione. Il counselor è il professionista che non si sostituisce alla vita di nessun'altro e che non può dare consigli. E' colui che stimola l'intelligenza emotiva e lavora sull'armonia e sull'equilibrio. Come disse Carl Rogers: “Quello che sono è sufficiente, se solo riesco ad esserlo”, quindi le sedute di counseling non sono assolutamente direttive, ma cercano di dare un nuovo assetto a quanto espresso dal consultante in maniera tale che possa guardare i propri eventi da una nuova prospettiva e trovare la propria soluzione.

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