Con “Verdeluna Verdemar”, Antonio Francesco Quarta ci propone una raccolta di materiale insolito, modellato attraverso un uso evidentemente divertito e passionale di una matrice altrettanto singolare - una selezione di brani della cantante messicana Chavela Vargas (scomparsa nel 2012 all’età di 93 anni) - e, senza dubbio, difficile da reinterpretare. I risultati di questa inaspettata convergenza, dove lo stile del cantante di origini salentine ammanta le strutture poderose della cantante originaria del Costa Rica (ma naturalizzata fin da bambina in Messico), disorientano quando ci si avvicina al disco per la prima volta, ma poi, piano piano, convincono fino in fondo. Convincono e coinvolgono, anche se richiedono qualche piccolo ma necessario approfondimento qua e là, di carattere tecnico e storico (in riferimento ai temi dei brani, così come al repertorio, allo stile della matrice e al contesto in cui si è espressa): d’altronde Quarta chiama in causa non solo una voce sensazionale, con la sua storia, la sua tradizione, la sua carriera, le sue ambiguità, ma soprattutto un simbolo internazionale che, sebbene non abbia probabilmente attratto il grande pubblico, ha senza dubbio affascinato tanti appassionati, che riconoscono in Chavela (il cui vero nome è Isabel Vargas Lizano, nata a San Joaquìn de Flores nel 1919) un simbolo di indipendenza, di una sorta di radicalismo creativo libero da categorie formali, ma anche di spontaneità, arguzia, profondità. Il talento della cantante messicana, d’altronde, ha superato i confini dei generi, grazie soprattutto alla sua bravura, alla voce possente e vellutata, calda, e alla sua caparbietà spesso mischiata a una naturale propensione all’avanguardia. Ricordiamo, infatti, che la Vargas - che ha puntellato la sua lunga vita e carriera artistica di amicizie con personalità messicane importanti, come quella con Frida Calo, Diego Rivera e Luis Echeverría Álvarez - si è sempre spinta un po' oltre, mantenendo allo stesso tempo un profilo informale e restituendo di sé l’immagine di un’artista certamente impegnata e determinata, ma anche indipendente e distante da tante categorie, sia musicali che sociali e culturali (della sua omosessualità, sebbene l’abbia esibita, in alcuni periodi della sua vita, con comportamenti anche espliciti - come quando si vestiva da uomo e fumava sigari - ha dato notizia ufficiale solo all’età di ottanta anni). Francesco Antonio Quarta, evidentemente consapevole dei riflessi caleidoscopici della Vargas, ha voluto sottolinearne soprattutto l’approccio, in cui confluiscono elementi asimmetrici e ambiguamente legati al genere tradizionale “ranchera” (termine con cui si indica un genere di musica popolare che si è sviluppato in Messico all’inizio del secolo scorso, caratterizzato da un struttura musicale semplice, spesso eseguito con chitarre, e da tematiche relative alla vita rurale, alla famiglia e all’amore), così come un andamento riflessivo, cadenzato, raffinato dalle chitarre arpeggiate e articolato dentro una narrazione profonda e inaspettatamente elegante. L’album, composto da quattordici brani e auto-prodotto per tramite dell’etichetta indipendente AFQ, segue una linea sperimentale che Quarta sta solcando da qualche anno e che lo ha portato a produrre dischi “concept” riferiti a generi e temi anche molto distanti tra loro: Mamanomama (raccolta di canzoni italiane e straniere reinterpretate con arrangiamenti originali, che vanno dal jazz al pop al rock, alla classica), “Intenso napoletano” e “Ninon” (una raccolta di romanze in francese). Se nell’impianto generale il disco ci consegna un repertorio evidentemente e consapevolmente legato a uno scenario culturale definito (che rimanda, soprattutto nei testi, allo scenario del Messico della prima metà del Novecento e della rivoluzione indipendentista, quindi alle opposizioni semantiche tipiche dei canti narrativi, attraverso cui si esprimono non solo le condizioni della sfera sociale entro cui le canzoni vengono prodotte, ma anche le aspettative, le visioni, le contraddizioni), nel processo di personalizzazione che Quarta elabora in questo suo ultimo lavoro, possiamo percepire una raffinata sensibilità. Questa prospettiva lo porta a sussurrarci, con un canto basso, dinamico, morbido, una narrazione colorata e profonda, in cui l’atmosfera (un po' corrugata e piacevolmente intorpidita rispetto a quella originale: è questo lo spazio in cui si inserisce l’autore) assume un ruolo di primo piano. Anche al di sopra dei significati impliciti ed espliciti dei singoli brani. Anzi, sono proprio i riflessi delle esecuzioni nel loro insieme a determinare la cifra di questo lavoro e a riverberarne i punti più forti: (come dicevo) lo scorrere di un ritmo costante sorretto dalle chitarre, la voce distesa dell’autore e, soprattutto, l’andamento fluido ed equilibrato, che libera i brani dalle incursioni dei registri più alti ed enfatizzati, che caratterizzano le versioni di Chavela: ne è un esempio “Piensa en mi”, il primo pezzo dell’album.
Daniele Cestellini
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