Goffredo Plastino, Cosa Nostra Social Club. Mafia, Malavita E Musica In Italia, Il Saggiatore, 2014, pp. 196, Euro 16,00

La prima considerazione che viene da fare leggendo il volume di Goffredo Plastino è che per parlare di musica in questo Paese appaiono sempre più necessari contributi come questo, collocabili all’interno della prospettiva di studi di popular music. Il titolo ironico (tratto dal titolo di una recensione a dischi di canzoni sulla ‘ndrangheta) rinvia al celebre lavoro, costruito da un musicista e da un produttore discografico, diventato un brand della musica cubana, e mette l’accento sull’idea di costruzione estetica e mediatica di un fenomeno musicale: il suono vintage dell’isola caraibica come quello della “musica della malavita”. Non è la prima volta che l’editoria italiana accoglie contributi che tematizzano il problema dell’esistenza o meno di una “’ndrina music”, sfuggendo alla diffusa idea di una mafia come corpo isolato e degenere della cultura contadina meridionale: pensiamo al lavoro dell’antropologo e musicista Ettore Castagna sul mercato musicale marginale delle audiocassette in Calabria, e più recentemente, al suo “Sangue e Onore in Digitale”, dedicato alla rappresentazione e autorappresentazione della ‘ndrangheta . Con “Cosa Nostra Social Club” Plastino assume una prospettiva non accomodante, che sicuramente non gli risparmierà attacchi; sceglie di ribaltare assunti stereotipati, interventi e giudizi censori, mettendone a nudo limiti e contraddizioni, attraverso procedure di comparazione che attraversano la storia novecentesca dell’Italia, e analizzando come si è parlato e si parla ancora di musica e mafia nel nostro Paese. Dell’etnomusicologo calabrese, docente dell’Università di Newcastle, nel Regno Unito (quella che laurea musicisti di folk music), ricordiamo “Mappa dei suoni”, la curatela del viaggio italiano di Alan Lomax, “L’anno più felice della mia vita” e, più recentemente, “Made in Italy”, scritto con Franco Fabbri, con saggi sulla popular music in Italia. Da conoscitore di cose calabresi – Plastino ha fatto parte della prima formazione dei Re Niliu, cui sono seguite altre esperienze musicali in ambito pop-world music, e si è occupato di aspetti della musica tradizionale e bandistica nelle regione meridionale – ma anche da outsider che vive al di fuori dell’Italia, propende per un approccio metodologico che è debitore nei confronti degli studi culturali, che gli consentono di allargare lo sguardo per osservare le modalità con cui negli ultimi decenni si è spiegato il rapporto tra musica e criminalità organizzata in Italia. Per smontare le interpretazioni riduzioniste e moralizzatrici che da più ambiti (politici, mediatici, letterari ma anche interne alle scienze demo-etnoantropologiche) hanno liquidato superficialmente i cosiddetti canti della n’drangheta ma anche l’intero mondo neomelodico partenopeo, Plastino parte da lontano: dalle vicende del brigante Musolino, a cavallo tra fine Ottocento e Novecento, protagonista di narrazioni cantate, naturalmente censurate e ritenute perniciose all’epoca, con l’arresto addirittura di musicisti di strada con i loro fogli volanti, mentre in tempi recenti le sue gesta trovano spazio nel repertorio di Otello Profazio o di un gruppo folk rock calabrese. Il libro si occupa del panico morale nei confronti di repertori musicali che danno una rappresentazione canora e musicale della violenza individuale e del crimine organizzato. Lo studioso isola due valutazioni che si sono rivelate ricorrenti, la prima di natura elitaria e classista che sottolinea la volgarità e il basso profilo musicale delle canzoni, la seconda che le considera come pratica di diffusione di valori mafiosi. Per cogliere la discontinuità estetica con cui sono stati gustati questi materiali, l’excursus prosegue passando in rassegna spettacoli teatrali e operistici che mettono in scena il canto della malavita, per giungere a fine anni ’50 e primi ’60 del secolo scorso, quando il “cantare la malavita diventa cool” (p. 24): è l’epoca del repertorio milanese inventato dal fior fiore di letterati ed intellettuali ed intrepretato da Ornella Vanoni. Siamo in una fase cruciale della storia dell’etnomusicologia italiana che a partire dagli anni Sessanta tra i suoi oggetti di studio fa propri anche i repertori criminali, alla luce dell’attenzione riservata alle classi subalterne. Necessario il passaggio attraverso il seminale lavoro di ricerca di Antonino Uccello sui canti di carcere e mafia siciliani, ma anche le acute ed ancora pregnanti osservazioni di Sciascia, che come un fil rouge accompagnano tutto il libro, quasi a fare da contraltare alle sommarie prese di posizione di scrittori di oggi, che tra l’altro, hanno fatto la loro fortuna proprio parlando di crimine organizzato. Né dimentica Plastino di soffermarsi sulla pesante censura radio-televisiva cui venne sottoposto “Terra in bocca”, il concept album del gruppo beat i Giganti dedicato alla mafia. Naturale che al centro dello studio sia l’ondata moralizzatrice – musicologica e politica – che ha investito l’occhiuta trilogia pubblicata nei primi anni del nuovo millennio dall’etichetta tedesca Pias, che raggiunge una notorietà inattesa (con vendite consistenti nell’ordine di centinaia di migliaia di copie, con recensioni nelle riviste specializzate di musiche del mondo), nel circuito della world music alla ricerca dell’autenticità e dell’alterità di repertori. I tre dischi in questione sono “Il canto di malavita”, “Omertà, Onuri e Sangu” e Le canzoni dell’onorata società (Patri Figghju e Spiritu Santu)”. Su questi dischi (ma prima di questi CD c’era stato il fiorente mercato locale delle musicassette) si abbatte la scure dei commentatori, che porta all’equiparazione tout court di interpreti di canzoni e delinquenti, considerando queste canzoni parte di un percorso educativo alla criminalità o, più direttamente, liquidandole come esempio di pessimo gusto estetico. Da parte di molta stampa, in Italia e all’estero, c’è un mix di pruriginoso e di puritano nelle analisi che si innesta (amplificandolo) al successo commerciale di questi materiali, tra l’altro datati musicalmente, che procurano anche l’idea surrettizia di una malavita calabrese custode della tradizione popolare. Contraddittoriamente, i censori parlano dei canti e dei loro interpreti, riducendoli a sottoprodotto culturale da non confondere con la “vera” tradizione orale calabrese, ma trascurando, per esempio, come tra i musicisti coinvolti in uno dei CD ci sia anche uno stimatissimo cantante, ricercatore e suonatore di chitarra battente e lira calabrese. Dunque, le osservazioni di Plastino ripercorrono l’ondata di panico morale che ha investito queste rappresentazioni. Analizzando i tre lavori discografici, l’autore smaschera le aporie di certe analisi estetiche, andando a cogliere le contraddizioni insite nel concetto della categoria di “popolare”, così come si è andata costruendo negli anni Settanta. Anche i meccanismi di costruzione dell’autenticità nel marketing dei prodotti discografici de “Il canto di malavita” vengono esplicitati: infatti l’autore non manca di sottolineare il paradosso insito nella condivisione, certo non cercata, da parte di molti commentatori delle strategie commerciali di vendita di canzoni considerate canti della mafia e non canti sulla mafia. Perché, si chiede ancora Plastino, a nessuno verrebbe in mente di dire che i registi Scorsese e Garrone fanno apologia della mafia o del sistema criminale campano (e italiano e internazionale, per meglio dire)? Perché solo i cantanti aderiscono a ciò che cantano? Chiaro che questo abbia a che fare con l’idea prevalente sul significato della musica. Impossibile, in questo studio del fenomeno dei canti sulla malavita, rinunciare ad affrontare il fenomeno neomelodico partenopeo che più di altri, negli ultimi vent’anni, ha sollevato molti je accuse e alimentato diatribe che hanno riproposto la corrispondenza cantante-apologeta della criminalità (Qualcuno rammenterà la dichiarazione: “I neomelodici sono il cancro di Napoli”). Strategia della distinzione sociale e snobismo riaffiorano nella marginalizzazione di questo repertorio, che “mette in scena qualcosa”, che esiste perché esiste la mafia (come ricorda la citazione di Pino Daniele nell’incipit del libro, accanto altrettanto lucide citazioni di Frank Zappa, Leonardo Sciascia e Woody Guthrie). In conclusione, Plastino si domanda: come dobbiamo intendere queste canzoni di malavita? Come trasfigurazione e narrazione dell’esistente, come documenti sonori relativi ad alcuni “attributi del sentire mafioso”, sostiene, riprendendo ancora Sciascia (p. 138). Un possibile lettura (e ascolto) è anche quella che li considera come campioni di veicolazione di repertori marginali, il cui successo nasce proprio dalla marginalità. Insomma, riconsiderando la lucidità dello Sciascia di quarant’anni fa, rifiutare la sommarietà reazionaria di certi giudizi. Leggere un libro come “Cosa Nostra Social Club” come lavoro che cavalca la letteratura sulla criminalità organizzata, significa avere, ancora una volta, perso la traiettoria, perché qui si discute di un dibattito culturale e politico che imperversa almeno dagli anni ’90, si espone l’ampiezza di un’emarginazione musicale. In realtà, qui si parla anche di noi, interrogandosi sulla capacità che abbiamo di leggere la nostra società, di comprendere certi fenomeni ma anche, ripercorrendo a ritroso la storia più recente del nostro Paese, di chiederci “se abbiamo più o meno divieti di allora” (p. 139). 

Ciro De Rosa
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