Ponti Sonori. I Trentacinque Anni Di fRoots Celebrati Alla Queen Elizabeth Hall Di Londra
Una trentina di anni fa, mentre punk e new wave facevano “saltare” le etichette che le case discografiche appiccicano ai generi musicali, alcuni musicisti-viaggiatori eleggevano Londra a loro base operativa, inventandosi un gruppo con una propria mitologia “world music” ante litteram: la frequentazione del bar di zio Patrel a Szegerely, da qualche parte nei Balcani, i viaggi oltremare, il ricorso a qualsiasi strumento, la passione per le collaborazioni fra Africa e Medio Oriente. In una manciata di dischi e in un vortice di concerti, i 3 Mustaphas 3 hanno attraversato ogni possibile latitudine per poi dar vita ad una diaspora che, coerentemente, copre oggi mestieri, stili e geografie fra le più diverse, dalla Russia, all’Indonesia, all’immancabile Londra, contenitore di memorabili concerti. Primo fra tutti quello in cui ospitarono la nascente stella della musica israeliana Ofra Haza, ma senza alcuna concessione alla consistente parte del pubblico che avrebbe voluto sentirla cantare in lingua ebrea e che cominciò ad abbandonare la sala dopo una serie di canzoni in arabo, prima di spaziare nella seconda parte del concerto fra arabo yemenita, ebreo ed aramaico: “There's no pleasing some folks. It was a fantastic night” (Non si tratta di accontentare qualcuno se vuoi una notte fantastica) fu il commento di Hijaz Mustapha, alias il polistrumentista Ben Mandelson.
Proprio da quell’episodio è ripartito il musicista Ian A. Anderson, fondatore e da sempre direttore della rivista musicale fRoots, per presentare il concerto che il 14 marzo alla Queen Elizabeth Hall del South Bank Centre di Londra ha celebrato i primi trentacinque anni del periodico. Dal 1979 (nata come Southern Rag, divenuta poi Folk Roots, prima di assumere il nome attuale) fRoots, che si pronuncia “eff-Roots”, accoglie e promuove le più diverse musiche del mondo: naturale, quindi, ripartire proprio da Mandelson per aprire la festa di compleanno in forma di concerto. Ma sul palco Mandelson non è salito da solo: la sua chitarra e il suo mandolino si sono intrecciati alla voce e alla chitarra di Chris Wood e alle percussioni del brasiliano Adriano Adewale, comunicando con maestria non solo la freschezza del primo incontro, ma anche la poesia di chi, praticando l’ascolto reciproco, si attiene all’essenziale e non da nulla per scontato. Un dialogo, a tre, riuscito che ha immediatamente evidenziato il senso del concerto: “Bridges”, ponti, una serie di sei collaborazioni inedite fra musicisti di provenienze diverse. Il secondo set è stato affidato alla cantante Lisa Knapp, recente vincitrice del BBC Folk Award 2014 con la canzone “Two Ravens”: alla Queen Elizabeth Hall la sua voce ha percorso sentieri mediterranei, in compagnia del rebetiko dei Mavrika con la voce cristallina di Katina Kangaris in evidenza.
Qualche ottava più in basso, il terzo set ha visto protagonista il canto sciamanico del croato Mojmir Novakovic, venuto a rinsaldare il recente incontro avvenuto dalle parti di Spalato con il quartetto acustico di Bristol Spiro. Se tutti gli altri incontri avevano carattere inedito o quasi, il cuore della serata ha riproposto un duo già consolidato dalla registrazione di “Clychau Dibon”, disco uscito ad ottobre e subito consacrato album dell’anno dalla giuria dei giornalisti di fRoots. Anche dal vivo, l’arpa classica della gallese Catrin Finch si fonde con la kora del maestro senegalese Seckou Keita sostenendosi e invitandosi reciprocamente a “cantare” dimostrando un’intesa che accanto alla maestria tecnica rivela una profonda umanità. Un set speciale fRoots ha voluto regalarlo all’artista più giovane della serata, la cantautrice Olivia Chaney: al suo piano e alle sue chitarre ha offerto nuovi incastri sonori la chitarra slide a pedale del veterano B.J. Cole. E come ad ogni festa che si rispetti, non sono mancati i fuochi d’artificio proprio in fondo alla serata quando sul palco sono salite, dalla Grecia, Martha Mavroidi - al suo debutto in Inghilterra, ma senza alcuna esitazione, sia che si tratti di offrire la propria voce, sia quando in primo piano è il suo liuto/lafta – e l’indiscussa solista (voce e violino) del folk inglese, Eliza Carthy: un incontro che risale a soli tre giorni prima, ma trova immediatamente un felice equilibrio, una fertile tensione fra l’umorismo e le possenti linee melodiche di Carthy e le intuizioni armoniche e ritmiche di Mavroidi: un’ottima base per il gran finale che riunisce sul palco l’intera compagine.
Alessio Surian
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