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Per richiamo dell’esotico, fascinazione ancestrale, gusto della scoperta alimentata dall’affermarsi dei festival world music, superamento del cliché rock occidentale, musicisti e mercato discografico nell’ultimo decennio hanno apprezzato formazioni musicali che arrivano dalle regioni desertiche di Mali, Niger, Mauritania, senza dimenticare l’interesse verso lo sventurato popolo Sahraoui. Sono soprattutto i berberi Kel tamahaq, che significa coloro che parlano tamahaq (la lingua chiamata anche tamashek o tamajeq), meglio noti attraverso l’eteronimo di origine araba Tuareg, a colpire l’immaginario e la sensibilità musicale nostrana, con una miscela formidabile di suoni ipnotici, chitarre elettrificate dal fraseggio “sporco”, ammalianti canti responsoriali. Così, riduzione della complessità per riportare tutto al già noto hanno condotto a coniare espressioni giornalistiche approssimative, se non inadeguate, come Desert blues o Tuareg rock, che, ad ogni modo, definiscono una originale e vibrante novità sonica ed espressiva. L’exploit del rebel sound dei Tinariwan, le loro gemmazioni, la nuova consapevolezza delle nuove generazioni, i flirt musicali dei vari rocker e produttori hanno immesso sulla scena sempre nuovi e vitali artisti ed ensemble, figli della diaspora tuareg causata da conflitti post-coloniali e geopolitica di quella parte d’Africa. Il percorso dei maliani Tamikrest, originari dell’area di Kidal, nel nord-est del paese, iniziato con il debutto “Adagh” (2010), sotto l’egida di Chris Eckman (Walkabouts e Dirtmusic), proseguito con “Toumastin” (2011), approda ora al notevole “Chatma” (Sorelle, in lingua tamashek). Prodotto ancora da Eckman, l’album è stato registrato nel marzo-maggio 2013 ai Sono Studios di Nouzov, Repubblica Ceca. Sin dal titolo, è un lavoro che è riconoscimento e tributo alle sofferenze e al coraggio delle donne tuareg, prime vittime di un conflitto, ma anche simbolo di resilienza, speranza e cambiamento. Donne che si fanno carico della sopravvivenza della prole, donne che sono le depositarie della cultura di un popolo, nel difficile momento storico che vive l’area subsahariana.
Ecco allora la foto di un giovane volto femminile avvolto in un velo, sguardo intenso che squarcia l’anima, occhi profondi, a dominare la copertina del disco. Non è casuale, l’omaggio a chi, come le donne, in tempi di guerra, acquisisce un ruolo centrale nella vita familiare e sociale. Ma in senso più generale, va detto che con i considerevoli mutamenti in atto da tempo, in primis il passaggio dal nomadismo alla sedentarizzazione, le donne tuareg hanno assunto un ruolo sociale sempre più preminente ed emancipato, che ha creato non pochi scompensi alla “tradizionale” fierezza identitaria maschile. “Chatma” è corredato da un corposo booklet che spiega le motivazioni del titolo e contiene le traduzioni dei testi in francese e in inglese. Se la scrittura compositiva del leader Ousmane Agg Moussa (canto e chitarra), guida da sempre la band maliana, con testi sospesi tra assertività identitaria e nazionalista, aneliti di libertà culturale, passaggi introspettivi e riflessioni sulle relazioni interpersonali, musicalmente il nuovo album si avvale dell’ingresso del francese Paul Salvagnac (chitarra ritmica e dobro), e del ruolo centrale preso dalla notevole vocalist, ex-Tinariwan, Wonou Walet Sidati. Accanto a loro, Cheick Tiglia (basso, voce), Aghaly Ag Mohamedine (djembe, calabash, voce), Ibrahim Ag Ahmed Salim (batteria, calabash), Cedric "Momo" Maurel (batteria e percussioni). I Tamikrest fanno parte della giovane generazione di musicisti touareg i quali, pur conservando tratti tradizionali (nell’ossatura ritmica soprattutto, ma anche in un certo uso delle chitarre), hanno incorporato elementi musicali globali (reggae, dub, funk, rock’n’roll), per non dire delle liriche, che riflettono una dimensione locale ma mostrano una crescente, e cosciente, apertura verso il mondo.
Non parleremo di una fuga in avanti, ma piuttosto di una maturazione artistica, che senza rinunciare al groove chitarristico che ha fatto la fortuna del new sound del deserto, esibisce forte consapevolezza e mostra un chiaro quanto naturale arricchimento musicale, che non svilisce la formula. Cosicché “Chatma” è esemplarmente a metà strada tra alternative rock e world music. A far capire che siamo di fronte ad un’opera notevole, bastano le dense linee chitarristiche, le ugole acute ed aspre, il ritmo vigoroso del primo brano, “Tisnant An Chatma” (La sofferenza delle mie sorelle), il cui ritornello recita: “Chi può valutare le sofferenze dell’anima / di chi vede le sorelle stremate dall’attesa / di chi di chi vede le sorelle stremate dall’attesa tra Paesi, in profonda afflizione / e l’oppressione quotidiana?”. Sale incalzante il ritmo in “Imanin Bas Zihoun” (Nulla renderà lieta la mia anima), canto responsoriale alternato, vocalizzi acuti nel solco della tradizione canora e chitarre lancinanti. Profondo basso penetrante di matrice reggae, battito di mani e tamburi, passaggi vocali urlati e sussurrati, chitarre torride nella splendida “Itous” (L’obiettivo, il fine). Con “Achaka Achail Aynaian” (Domani, un altro giorno) l’atmosfera si fa più morbida e oscura, a tinte bluesy: il canto è sussurrato, su uno strato percussivo si snodano arpeggi di chitarre acustiche ed incursioni di taglienti chitarre elettriche.
Si cambia ancora ritmo, gli affondi di chitarra di “Djanegh Etoumast”, che significa “Dico al popolo”, ci riportano dalle parti di un blues polveroso. Canta Ousmane: “Dico al popolo e agli uomini, che sono tutti fratelli, qualsiasi cosa abbia radici morte, non crescerà mai”. Segue “Assikal” (Il viaggio), in cui si canta il rispetto dovuto al deserto da cui si proviene: “Porta rispetto per questo Deserto che hai lasciato per vivere nella città”; la canzone mostra il lato, chiamiamolo sperimentale, della band, tra montaggio in studio, ritmi dilatati, melodie fluttuanti, echi pinkfloydiani, voci recitanti, percussioni e flauti campionati che sembrano evocare provenienza e appartenenza al luogo avito. Dopo il mid-tempo di "Toumast Anlet” (Abbiamo un popolo), invocazione di indipendenza, dominata dal canto suadente dei due vocalist adagiato sulle chitarre, eccoci all’arso rock-blues-funk di “Takma” (Dolore), espressione dello sdegno, misto a sofferenza e rabbia, per le ingiustizie subite per mano altrui. È poi la volta del fascinoso folk acustico di “Adounia tabarat” (Vita), tra magnetici, iterativi arpeggi chitarristici e la voce scura di Mossa. Il disco si chiude con la splendida “Timtar”, preludio di chitarre trattate, poi una cassa profonda apre il varco alla chitarra che ricama frasi ipnotiche, la voce segue intonando un canto sul dolore che deriva dalla separazione dalla propria amata. Se non amate le iperboli, chiamatelo un grande disco.
Ciro De Rosa
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