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“S’Och A’ Dhomhnaill Oig Ghaolaich” è un “òrain luaidh”, in inglese waulking song, un canto in forma responsoriale, praticato nel processo di lavorazione del tweed da gruppi di donne che battevano il tessuto per renderlo più morbido e resistente alle intemperie. La ban dhuan (ovvero la donna-canzone) intonava la breve strofa e il resto delle altre lavoratrici la seguiva nel ritornello, che faceva largo uso di suoni sillabici nonsense, l’organizzazione metrica e ritmica era dettata dal movimento del tessuto lungo la tavola di battitura. La waulking song apre il nuovo lavoro degli scozzesi Capercaillie, che festeggiano i trent’anni di attività; a sorprendere sono soprattutto le frasi iniziali del sax tenore di Tommy Smith, musicista della scena jazz di Edimburgo, poggiate su un tessuto percussivo, che introducono l’inconfondibile voce da brividi di Karen Matheson, la quale, come una ban dhuan, conduce il canto. Nella rilettura della band scozzese, l’inserimento di intermezzi strumentali tra i versi lascia al sax spazio per rientrare, incrociandosi poi nel finale con violino, flauto e uilleann pipes. Con un inizio così sviluppato, ma al contempo tanto accattivante, si capisce che non siamo di fronte ad un disco qualsiasi. Il gallo cedrone, questo è il significato di Capercaillie, ha fatto la storia del nuovo folk scozzese, attraversando molte stagioni, ha raggiunto un elevato status artistico e la notorietà di un vasto pubblico con canzoni “prestate” alla pubblicità e con colonne sonore, flirtando pesantemente con il pop ed innestando robuste dosi di elettronica, tuttavia, conservando eleganza negli arrangiamenti, nonostante alcuni cedimenti ravvisabili nella consistente discografia.
Stabilizzato l’organico, nel quale solo i cofondatori Karen e suo marito Donald Shaw, originari dell’Argyll, sono componenti della line-up delle origini, ora i Capercaillie rientrano in pista (per coincidenza, in concomitanza con la “rinascita” della storica band irlandese Clannad dall’affine cammino artistico), presentandosi con un album in studio dopo dieci anni. Oggi, la band allinea Karen Matheson (voce), Donald Shaw (tastiere, fisarmonica), Charlie McKerron (violino), Manus Lunny (chitarra, bouzouki), Ewen Vernal (basso, chitarra, voce), Michael McGoldrick (flauto/uilleann pipes). Ritornando a parlare di questo nuovo lavoro, eccoci alla seconda traccia, il medley strumentale, “The Strathspey Set”, in cui si alternano potenza d’insieme – ritmica e armonizzazioni in certi passaggi possono ricordare la lezione dei Moving Hearts – e canto di Karen nello stile sincopato puirt-a-beul, su un ineccepibile sostegno ritmico della chitarra dell’irlandese Manus Lunny. Ancora una superba performance in gaelico è “Ailein Duinn Nach Till Thu An Taoblh-Seo”, in cui si rinnova la struttura tipica con la voce fatata di Karen, sostenuta dagli strumenti, mai preponderanti, e un corposo inciso strumentale. Nel set di danze “The Jura Wedding Reels” fanno il loro ingresso il banjo di Gerry O’Connor, le uilleann pipes di Jarlath Henderson, il violino di Aidan O’Rourke (dei Lau) e le percussioni di James MacKintosh (degli Shooglenifty), che si uniscono al gruppo base.
Uscita dalla penna di Shaw, la title track è l’unica canzone in lingua inglese, che racchiude il senso del fare musica della band: ”At the heart of it all […] is a song for the common man [… ] At the heart of it all is a story to be told”, canta Karen duettando con Kris Drever (anch’egli in forza ai Lau), mentre uilleann pipes e tastiere sono in primo piano nella trama sonora. Deciso cambio di atmosfera con “Abu Chuibhl”, dove tromba (Ryan Quigley), sax (Paul Towndrow) e trombone (Michael Owers) inseriscono fremiti R&B e funky. Di diverso tenore i due successivi strumentali, “The Marches”, incentrato su flauto e violino, e “Cal’s Jig”, dal notevole drive ritmico: entrambi mettono in risalto la collaudata solidità del gruppo. Richiami pop si avvertono in “Nighean Dubh Nighean Donn”, canto presente presso le comunità gaeliche di Cape Breton (Canada). Vertice di vocalist sopraffini delle Ebridi Esterne nella splendida “Fainne An Dochais”, con le ugole di Julie Fowlis, Kathleen MacInnes e Sineag MacIntyre, che si combinano con quella di Karen e del cantante dell’isola di Skye, Darren MacLean. Incantevole anche la chiusura, “Lament for John ’Garve’ Macleod of Raasay” è una tragica composizione su un annegamento risalente al 1671; ancora una volta esaltazione del canto di Karen, con chitarra e tastiere deliziose a sostegno. Che classe! Questo 22 settembre, unica data italiana, i Capercaillie suonano a Busto Arsizio, al Busto Folk Festival. Imperdibili!
Ciro De Rosa
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