Patrimoni Culturali Immateriali E Sentimento D'Identità

Campanili, riti e bande musicali: alla ri-scoperta di una “cultura del patrimonio culturale” 

Partiamo da un noto dato numerico: la popolazione italiana, tenendo conto dell'ultimo censimento generale, è pari a 60.626.442 abitanti, i quali abitano ben 8.092 comuni. Senza entrare in discussioni molto complesse che toccherebbero argomenti inerenti a numerose e diversificate discipline, qui ci interessa soprattutto affrontare, per quanto possibile, il tema e le relazioni che intercorrono tra il luogo di nascita e di residenza (che per molte persone coincidono) e la qualità del sentimento che lega i nativi rispetto al proprio paese, inteso anche come centro di appartenenza identitaria. In un bel saggio di qualche anno fa (Pietro Clemente, Paese/paesi in I luoghi della memoria. Strutture ed eventi dell'Italia unita, a cura di Mario Isnenghi, Gius. Laterza & Figli, Roma-Bari, 1997, pp. 3-39), Pietro Clemente, già docente di Antropologia Culturale presso l'Università di Firenze, argomenta e riflette sui tanti nessi che si aprono nel rapporto tra Paese (con la p maiuscola, poiché sta per Italia) e i paesi, ovvero i tanti centri abitati, grandi, medi, ma spessissimo molto piccoli e con caratteristiche rurali, in cui l'Italia è suddivisa. Abbondanti sono le incursioni che il prof. Clemente attua nella storia italiana, tra letteratura e politica, ma noi, al fine della nostra riflessione ne estrapoliamo, come prolifica suggestione, solo alcune, prestando un occhio di riguardo alla ricerca dei folkloristi e degli antropologi. Attraversato da una robusto corpus di proverbi e modi dire sedimentatosi nel tempo - molte forme paremiologiche d'uso contemporaneo sono tuttora molto frequentate, su tutte "Tutto il mondo è paese" e "Mogli e buoi dei paesi tuoi" – ricordiamo che il microcosmo paese, nella seconda parte del secolo scorso, è stato fatto oggetto di attenzione anche dal mondo della musica, sia di quella cosiddetta leggera sia di quella d'autore. Riportiamo due esempi interessanti al riguardo. 
All'inizio degli anni Settanta del secolo scorso, Clemente ci ricorda che fu molto in voga (ed ancora oggi la si ricorda bene) una canzone, che ebbe grande successo al Festival di Sanremo, interpretata dal gruppo de "I ricchi & Poveri" e dal cantante ispano-americano Josè Feliciano. Il testo del brano (Migliacci-Fontana, Che sarà), che ben racconta la durezza della vita lontano da casa presente ancora in quegli anni, anni di spopolamento di interi paesi, non lascia dubbi sul senso di doloroso abbandono provato dal protagonista nel lasciare il proprio paese e la sua comunità di vita: "Paese mio che stai sulla collina, disteso come un vecchio addormentato. La noia, l'abbandono sono la tua malattia, Paese mio, ti lascio vado via...e ancora: Gli amici miei son quasi tutti via e gli altri partiranno dopo me, peccato perché stavo bene in loro compagnia, ma tutto passa, tutto se ne va. Che sarà, che sarà, che sarà...ecc. Intorno ad altre atmosfere, quelle disegnate da Cesare Pavese ne “La luna e i falò”, si svolge invece il ricamo di Mario Pogliotti, amplificato dalla straordinaria interpretazione di Giovanna Marini, che, in "Ricordo di Pavese", fa esordire il brano musicale con queste parole: “Un paese vuol dire non essere soli, avere gli amici del vino un caffè...”. Per amor di citazione, ci piace riportare l'intero pensiero dello scrittore, estratta sempre da “La luna e i falò”: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c'è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti.” Nei due testi, per la verità, emergono più che i luoghi fisici caratterizzanti l'habitat paese – la chiesa, la piazza il campanile - i luoghi dello spirito – gli amici, la lontananza, la nostalgia – che comunque costituiscono un corredo semantico collegabile a immagini profonde della vita. La funzione di centro focale assegnato alla parola paese, con protagonista uno dei simboli fisici prima segnalati che assurge a centro totalizzante del mondo dell'individuo, emerge distintamente sia nell'articolo già citato di Pietro Clemente, sia in un altro breve saggio, a firma di Glauco Sanga, dal titolo “Campane e campanili” (Ivi, pp. 75-87). 
In questo scritto si cita un racconto molto interessante, decisamente noto in letteratura, che il notissimo antropologo Ernesto de Martino visse in prima persona, annotandolo nel dettaglio nella sua opera La fine del mondo. Ne riportiamo un breve estratto: "Percorrendo una strada della Calabria, insicuri del nostro cammino, incontrammo un vecchio pastore...gli offrimmo di salire in auto per accompagnarci al bivio giusto…poi lo avremmo riportato al punto in cui lo avevamo incontrato. Salì in auto con qualche diffidenza, come se temesse un’insidia, e la diffidenza si andò via via tramutando in angoscia, perché, ora, dal finestrino cui sempre guardava, aveva perduto la vista del campanile di Marcellinara, punto di riferimento del suo spazio domestico. Per quel campanile scomparso, il povero vecchio si sentiva completamente spaesato: e solo a fatica potemmo condurlo sino al bivio giusto e ottenere quel che ci occorreva sapere. Lo riportammo poi indietro...e sempre stava con la testa fuori dal finestrino, scrutando l’orizzonte. Per vedere riapparire il campanile di Marcellinara: finché, quando finalmente lo vide, il suo volto si distese e il suo vecchio cuore si andò pacificando, come per la riconquista di una “patria perduta”. Giunti al punto di incontro, si precipitò fuori dall’auto…senza neppure salutarci, ormai fuori dalla tragica avventura che lo aveva strappato allo spazio esistenziale del campanile di Marcellinara.[…] Il nostro pastore, nell'episodio narrato - in cui il campanile di Marcellinara appare elevarsi a funzione totemica, “punto di partenza affettivo dell'esperienza del mondo” precisa Clemente - fu letteralmente assalito da un'angoscia ingestibile, cosiddetta da "spaesamento", condizione in cui l'individuo teme di perdere i propri riferimenti domestici, concetto che viene meglio chiarito da de Martino nella sua idea concettuale di "presenza". La “crisi della presenza” caratterizza quelle condizioni nelle quali l'individuo, di fronte a particolari eventi o situazioni (malattia, morte, vari conflitti d'ordine morale, ecc.), sperimenta un'incertezza, una crisi radicale del suo essere storico inveratasi in quel dato preciso momento, scoprendosi nel contempo incapace di agire e determinare la propria azione. Ebbene, per il Nostro, il rito aiuta l'uomo a sopportare, e talvolta a superare, la "crisi della presenza" che esso avverte di fronte alla natura, sentendo minacciata la propria stessa vita. I comportamenti prescrittivi, stereotipati ma tutelanti dei riti, offrono modelli rassicuranti da seguire, costruendo quella che verrà in seguito definita come "tradizione". Ma se tutto ciò vale per le condizioni di vita del singolo individuo, osiamo azzardare e allargare il nostro spettro di riflessione all'ambito di comunità. Perché mai, ogni anno, una moltitudine di emigrati torna al proprio paese per partecipare alla Festa principale del luogo natio (festa patronale o comunque di significanza comunitaria), cioè alla manifestazione che lo caratterizza e lo ricorda nella memoria collettiva. Forse per riconquistare la “patria perduta”, come ci raccontava Ernesto de Martino. 
E perché mai gran parte degli stessi residenti di un dato paese attendono con ansia tutto l'anno il giorno di quel particolare rito festivo, cominciando già a pensarci il giorno dopo che lo stesso si è appena concluso? Questo forte legame con la festa è anche indice di appartenenza al luogo, ai suoi edifici, al suo ambiente, alle sue atmosfere, alle persone, alla comunità? Qui l'argomento si fa più sfrangiato, poiché sono implicate scelte personali ma anche sottili relazioni sia interpersonali sia legate alla memoria storica che segnano la vita di ognuno. Ad emblemi materiali indiscutibili nella memoria individuale e collettiva, come il campanile e la chiesa o la piazza centrale, rivisitazione dell'antica agorà, possono essere preferiti simboli più volatili, portatori di una storia locale costituita da persone più che da mattoni. Il riferimento e il nostro pensiero si direziona verso quelle manifestazioni festivo-rituali, afferenti alla tradizione, riconosciute ufficialmente anche dagli organi istituzionali e che coinvolgono e convocano, nella maggior parte dei casi, l'intera comunità. Ai saperi e alle conoscenze tradizionali l’Unesco - L'Organizzazione delle Nazioni Unite per l'educazione, la scienza e la cultura - ha ritenuto di dare specifica attenzione introducendo un concetto molto importante, quello di “patrimonio culturale immateriale’”. Con una apposita Convenzione, approvata nell'ottobre del 2003, l'Unesco ha definito come “patrimonio culturale immateriale”: “le pratiche, le rappresentazioni, le espressioni, le conoscenze, i saperi e i saper fare, – associati agli oggetti, agli strumenti, ai manufatti e agli spazi culturali ad essi collegati – che le comunità, i gruppi e, in alcuni casi, gli individui riconoscono come facenti parte del loro patrimonio culturale. Ciò che connota il patrimonio culturale intangibile è la trasmissione orale di generazione in generazione, nella dinamica sociale e culturale; esso è costantemente ricreato dalle comunità e dai gruppi interessati in conformità al loro ambiente, alla loro interazione con la natura e alla loro storia, e fornisce loro il senso di identità e di continuità, promuovendo così il rispetto per la diversità culturale e la creatività umana”. Certamente, quando un rito, una festa locale, è candidata a ricevere l'ambito riconoscimento Unesco di Patrimonio Culturale Immateriale da salvare e salvaguardare, tutta la comunità ne risulta coinvolta, a tal punto che diviene impossibile scindere il nome della festa da quello della località. 
Ci piace ricordare che quest'anno, la cittadina campana di Nola, con il progetto Le Grandi Macchine a Spalla Italiane e i suoi famosi Gigli, una delle feste tradizionali più spettacolari del nostro Paese, sarà l'unica proposta dello Stato Italiano per la selezione Unesco 2013. Ma, per concludere il nostro frammentario ragionamento, un ultimo pensiero vogliamo rivolgerlo ad un'istituzione che in molti luoghi rappresenta il punto di riferimento della comunità, il tempo che scorre guardato attraverso la lente del passaggio delle generazioni, strumenti musicali e repertori considerati come testimoni di un pezzo di storia vissuta collettivamente. In questo solco di pensiero, Pietro Clemente suggerisce che: “l'asse del mondo paesano laica e moderna è rappresentata piuttosto dalla banda municipale che non dalla chiesa e dal campanile. Laica e regolamentata, interclassista, disponibile per le circostanze istituzionali politiche, civile e religiose, per quelle del ciclo della vita, e per il ballo, la banda rappresenta l'ibrido societario e il perno della vita paesana d'oggi”. Abbiamo cercato un esempio concreto, nella storia locale contemporanea, che potesse esprimere bene il pensiero esposto da Pietro Clemente, e ci sembra di averlo trovato nella vitale ed innovativa esperienza attuata a Spongano, comune della provincia di Lecce, situato nel basso Salento. Qui, una decina d'anni fa, nasceva l’Università Popolare di Spongano, ente che rientra in quell’insieme di istituzioni a carattere socio-educativo che svolgono importanti funzioni nel campo della diffusione e conservazione delle culture e delle tradizioni locali. Originatasi grazie al riconoscimento da parte della Regione Puglia, l’Università Popolare della Musica e delle Arti di Spongano si caratterizza per essere tematica, volendo proporre iniziative soprattutto nel campo del recupero e della riproposta della musica popolare e delle altre forme espressive della tradizione. 
E un’iniziativa, cui l’Università Popolare “Paolo Emilio Stasi” ha dedicato tante delle sue energie, è stata proprio la costituzione di una banda che riuscisse a coniugare, mettendone in risalto le singole peculiarità, il repertorio musicale classico e quello tradizionale. Gli abitanti di Spongano hanno risposto con entusiasmo, poiché tirar fuori da cassetti impolverati il repertorio dell'antica tradizione musicale popolare sponganese, ha significato per i più adulti del complesso bandistico, ancora una volta, “riconquistare la patria perduta”, per i più giovani finalmente scoprirla, sentire di farne parte, essere considerati veri testimoni culturali. Sin da subito circa una ventina di corsi sono stati dedicati all’alfabetizzazione musicale e allo studio di strumenti della tradizione bandistica. L’obiettivo dichiarato da Luigi Mengoli (che di questo progetto è stato l'ideatore, oltre che il fondatore del gruppo salentino dei Menamenamò) è: “…recuperare l’anima popolare della banda, perciò cercheremo di coniugare le musiche tradizionali con le sonorità bandistiche. Questo esperimento in verità, in dimensioni – diciamo così – sperimentali lo abbiamo già praticato negli anni passati, e ci siamo convinti dell’opportunità di approfondire l’incontro tra banda e musica popolare. La cultura popolare ha una straordinaria capacità di assimilare forma e modi espressivi con cui, per le più svariate ragioni, entra in contatto. C’è un continuo passaggio di elementi colti che migrano nella dimensione popolare, perdono la memoria della loro provenienza e diventano patrimonio della cultura popolare. 
Oggi è possibile – a nostro giudizio – evidenziare la natura popolare della banda, avvicinandola – con consapevolezza e convinzione – al repertorio dei canti tradizionali. Abbiamo – aggiunge ancora Mengoli – commissionato ad alcuni musicisti salentini colti la composizione di alcuni brani per banda, su temi desunti dai più bei canti salentini.” (Salvatore Colazzo, Luigi Mengoli. L'avventura Menamenamò. Quindici anni (1995-2010) di ricerca per lo sviluppo della cultura etnomusicale del Salento, Amaltea edizioni, Melpignano, 2010, p. 52). Ilvo Diamanti, noto sociologo e politologo, ci offre una traccia di pensiero finale in un suo articolo che potrete leggere integralmente, unitamente ad altri scritti, in un ebook scaricabile gratuitamente su Saperepopolare.com. Diamanti, in un discorso molto più articolato, scrive infatti che "...l’orgoglio nazionale si indirizza, oggi ancor più che in passato, su aspetti che riguardano le tradizioni sociali e locali...la cultura e l’arte...l’Italia è fatta di tante città, regioni. Soprattutto ‘città’, segnate da storie importanti, ricche di cultura e tradizioni, profonde e radicate nel paesaggio e nell’architettura, nella cucina e nella cultura, nei dialetti... Appartenenza locale e nazionale quindi coesistono, in Italia. Anzi, è probabile che si saldino reciprocamente...". Avremmo aggiunto, per tutto ciò che in questo articolo è stato intessuto, anche la parola “paese”, ma la conclusione ci sembra autorevole e giusta. 


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