E’ un disco del 2012 questo “Big Inner” uscito in tutto il mondo nel gennaio del 2013, come si dice in ambito editoriale, per i tipi della Domino Records, etichetta davvero interessante e che spazia realmente. Infatti, questo disco spazia. C’è dentro una visione spirituale profonda e variegata, davvero quel big inner del titolo, qualcosa di grande e profondo, che omaggia chi della musica profonda e importante ha fatto vita, vedi The Band et similia. Perchè mi viene in mente la Band di Robbie Robertson e del magnifico cantante e drummer Levon Helm, del basso agile e della soul voice di Rick Danko? Della musica toccante di Richard Manuel e delle tastiere enormi e leggere del barbudo genio Garth Hudson? Non perché la musica dell’altrettanto barbudo Matthew sia direttamente riferita al grande gruppo canadese, ma perché presenta la stessa inclassificabilità.
Avete mai ragionato sull’importanza diderotiana della classificazione? Da sempre, da quando l’essere umano ha iniziato a battere su tronchi vuoti e affrescare grotte, la classificazione ha rappresentato una sfida, vuol dire suddividere, classificare per genere, commestibile/non commestibile e ancora più in profondità, non commestibile/velenoso, amico/nemico amica/ amante, notte/giorno, montagna/collina, colorato/grigio. Ora pensate al problema della classificazione dentro gli esercizi commerciali. Il vostro affezionato Rigo ha lavorato a lungo e con grade diletto e piacere dentro un bel negozio di dischi della piccola cittadina, dove è nato e cresciuto, ed uno dei problemi che affrontavo quotidianamente una ventina d’anni fa, con struggimenti e interrogativi continui e ripetuti era dove inserire The Band. Nel Rock si però... nel Country? Certo ma... New Orleans ? anche ma...Funky ? beh, insomma... Americana (qualche anno dopo...) potrebbe ma... Ecco, riassumendo per dovere di concisione, con Matthew E. White per fortuna e lo sottolineo, si è di fronte allo stesso problema. E’ un disco di Gospel Moderno? Di presudo Jazz col Groove? sì e anche no... Diciamo che è un bel disco, di un giovane compositore molto molto dotato, capace di utilizzare l’aspetto positivo e dronico di certa musica adatta a trip cerebrali e farla divenire una piccola mania. Matthew ha una visione e la persegue, è la concezione di passione ed amore per la musica che traspare da ogni pezzo, una passione che si cristallizza dentro gli arrangiamenti e le sonorità calde e analogiche del suo Big Inner facendolo risaltare sul mare magnum dei release quotidiani che invadono il mercato. Nelle sue canzoni trova spazio un sound personale lontano anni luce dalle necessità legate al business e questo da un respiro di sollievo e un minimo di speranza a chi, come noi, la perde quasi quotidianamente. No, tranquilli, non c’è una terra promessa, non più, non ci sono neanche più eroi, ma musicisti che si sbattono con intelligenza per far arrivare un loro pensiero che va oltre l’aspetto esteriore del pacchetto ce ne sono e, in qualche posto, lontano nel west, trovano persino lo spazio ove giocarsi una possibilità ad armi pari. Sì perché la questione principale è quella, tu puoi anche creare che sò il corrispettivo del White Album del 2013, io ci credo, non lo ritengo impossibile (difficile sì, ma non fuori portata), la cosa difficile è trovare chi ci crede e accetta di investirci dando una possibilità di crescita a un progetto che appare strampalato. Ecco la differenza. Vedere il lavoro di una etichetta come la Domino, senza approfondire, mi pare già una speranza che aiuta a vivere un poco meglio. Bel disco, pervaso di spiritualità, di fede e speranza non cieca ma poetica. Ricco di suoni molto curati e mixato con eleganza pigra e lazy. Consigliato.
Antonio "Rigo" Righetti