Loro fanno parte di una generazione di elettronici che con un rocker non è che ci azzecchino tanto, ma, come mi capita spesso, mi son dovuto ricredere. Sono infatti sempre più convinto che Gahan e soci, al loro tredicesimo album, siano in una fase di miglioramento continua. La loro musica è allo stesso tempo ampiamente progettata, ma anche tipicamente istintiva. La voce di Gahan sta ringiovanendo, nel suo muoversi sinuosamente lungo le traiettorie delle storie di perdizione e tentazione. Diffidate da quelli che stanno scrivendo a destra e manca che è un disco di forte influenza blues, non so proprio dove questi pseudo giornalisti si siano procurati la pessima informazione, qui di blues o vagamente assimilabile al genere c’è solo il riferimento al Delta, ma è poca cosa. I toni di questa musica sono tutto meno che rassicuranti, la macchina pare avere già vinto sull’uomo, ora la macchina impone il ritmo, il riposo, il sogno e a noi non rimane altro che adeguarci. E’ una visione pessimistica e nichilista, ma la musica può liberarci. Quella vera, quella che nasce come necessità interiore, come respiro da condividere tra sommozzatori che siano a corto di ossigeno. La luce sembra entrare a fatica dentro le camere che si succedono in “Delta Machine”, ma la magia c’è, ed è garantita dal lavoro di un produttore come Ben Hillier e un lavoro di mixaggio affidato alle mani di Flood. E’ come se la musica procedesse in un mondo di movimenti che vengono decisi dagli arpeggiatori delle tastiere sibilanti mentre gli accordi cadono con reiterata marzialità sul battere del ritmo. La voce e gli abbellimenti di voce fanno di “Heaven” e di alcuni altri brani una elegia metallica che farà senz’altro faville live, perché, alla fine, i Depeche Mode si sono rivelati essere una grande band live e questo è quello che conta. Disco coeso e tastieristico ma anche capace, ascolto dopo ascolto, di ritagliarsi una profondità insospettabile.
Antonio "Rigo"Righetti
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