Sepe e la sua rinnovata Rote Jazz Fraktion in concerto alla vigilia dl 25 aprile? Occasione per assaporare musica, amara ironia e feroce sarcasmo del sax-autore partenopeo. Semmai qualcuno si aspettava un concerto celebrativo per la festa del dì a venire, sarà rimasto deluso. Ebbè, significa non conoscere affatto la personalità di un musicista geniale, commediante, provocatore lucido e viscerale, irriverente, verboso – se volete – ma non incline alla ritualità, anzi pronto a denunciare i fascismi devastanti di oggi: dalla finanza alle multinazionali, che spendere parole per quello del nostro recente passato, su cui uomini e donne che hanno fatto la Resistenza si sono già espressi con i fatti. Invece, per la serata – il concerto è parte della corposa rassegna “Trianon Music Live” che ha portato sul palco del teatro di Forcella quasi tutto il meglio della Napoli musicale – Sepe sceglie la metafora della trattoria malfamata dove si incontra una moltitudine, una variegata umanità di genti d’ogni Paese. La banda punta sul fido Franco Giacoia alla chitarra elettrica, ma poi riserva sorprese per la presenza di vecchi e nuovi compagni di viaggio: Floriana Cangiano (voce plurilingue), Tommy De Paola (tastiere), Davide Costagliola (basso), Daniele Chiantese (batteria). Suonare al Trianon per Sepe è un ritorno, perché proprio in questo teatro – nel 2007, con Nino D’Angelo direttore artistico – è nata la Brigada Internazionale, che in origine si chiamava proprio Orchestra Trianon, una banda multietnica di una dozzina di musicisti, di cui il sassofonista ha assunto le funzioni di direttore.
Invece, la Rote Jazz Fraktion è una band dal piglio aggressivo, al servizio dell’artista memore della lezione del jazz elettrico: da Davis ai Weather Report, da Gato Barbieri agli Area, ma senza dimenticare la declinazione napoletana di Napoli Centrale. Conosciamo il musicista napoletano come attento assimilatore di pentagrammi mediorientali, balcanici e sudamericani, scavatore di musiche popolari, popolaresche e d’autore. Non è un caso che l’intrattenimento della serata inizi con “Ya Mina el Habayeb” dei fratelli Mansur e Assi Rahbani, una canzone dedicata alla città libanese di Beirut. L’attitudine alla dilatazione, all’esplorazione improvvisativa è parte della cifra musicale di Daniele, così la tammurriata “Palle e pallucce”, originaria dell’area vesuviana, diventa quasi una suite e perde la sua corporeità coreutica. Napoli è un po’ il filo rosso del concerto, non solo per il tributo al patrimonio contadino dell’entroterra partenopeo, ma perché più volte ricorre il nome di Raffaele Viviani, uomo di teatro che ha messo in scena e fatto parlare il “popolo della strada”. Di Viviani la banda ripropone “Bammenella ‘e copp’ ‘e quartieri”, addirittura troppo elegante nella sua veste da jazz venue, più che da taverna. Ancora Napoli con il tradizionale “Canto dei Filangieri” e “Era de Maggio”, di cui Sepe, complice il solismo di Pietro Citera, virtuoso cilentano di fisarmonica, esalta la struttura da vals musette. Insomma, qui si sta parlando di crocevia musicali, di world music prima che il termine fosse coniato.
Due ore di spettacolo, con un cospicuo numero di amici ospiti che si aggiungono alla formazione base: “Sul palco saremo più di voi spettatori, alla fine presenteremo il pubblico ai musicisti in scena”, chiosa beffardo il sassofonista, rivolgendosi verso la platea non proprio gremita , prima di lanciarsi in un’incursione nell’universo lusofono con “Menina estas a janela” del portoghese Vitorino e “Procissao”, tratta dal repertorio di Gilberto Gil. Il concerto rappresenta soprattutto la prima di un nuovo svettante capitolo della discografia di Sepe. Non un semplice disco di dodici brani, ma un “Canzoniere illustrato”, un libro con CD (autoprodotto, distribuito da Edel, € 25) con la copertina disegnata da Altàn che mette in mostra una variopinta orchestra plurietnica, e dodici fumetti (tavole di Mauro Biani, Rosaria Cefalo, Squaz, Marcella Brancaforte, Enzo Troiano, Akab, Kranti, Tony Afeltra. Fulvio Cozza, Shaone, Luigi De Michele, Kanjano) per il pari numero di canzoni che attraversano il Mediterraneo e i Balcani con puntate in America Latina. Uno spettacolo che non è solo esibizione musicale, come d’abitudine Sepe accende i riflettori su un canto o su un autore, contestualizzandolo, dando stimoli sonori e letterari, punti di riferimento all’ascoltatore, ma anche proponendo gag irresistibili quanto taglienti. Dal nuovo lavoro arrivano ancora la tunisina “Lettera ai Tiranni”, cantata da Marzouk Mejri, “Ajde Iano”, il tradizionale “jugoslavo”, come rimarca il sassofonista: “Perché la “Jugoslavia era bella…”, “Sin la tale iaca”, canzone romani, interpretata dal cantante e chitarrista romeno Flori Barbu, incontrato da Daniele per caso in un ristorante di Miseno mentre faceva la posteggia, con un repertorio fitto fitto di canzoni napoletane.
Ha esiti davvero ragguardevoli “L’incubo di Persefone”, firmata Gatsos e Hatzidakis, altro tassello dello squisito lavoro di Sepe nella memoria del canto sociale e politico mediterraneo che è d’insegnamento per altri artisti, segno della capacità di ascoltare la musica senza steccati e barriere: un antidoto contro la mediocrità. Impossibile citare tutti i musicisti che si aggiungono di volta in volta per entrare nella trattoria Sepe, ma una nota va spesa per il rapper Paolo Romano "Shaone" (voce), autore di “Fuori contesto”, Alessandro Tedesco (trombone) e Marcello Giannini (chitarra elettrica). Nel repertorio c’è spazio per Caterina Bueno, di cui è ripreso il canto dei coscritti “Partire Partirò”, che nel nuovo disco è interpretato da Ginevra di Marco, mentre qui è cantato dalla bella voce eclettica pan-etnica di Floriana Cangiano, che forse deve ancora un po’ svincolarsi dall’ombra incombente della grande Aulii Kokko. Il bis è per una tiratissima jazz-funk version di “Campagna”, tributo dovuto a James Senese e a Napoli Centrale.
Ciro De Rosa
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