Era il 1990 quando l’immensa voce storica del folk inglese incrociò l’ugola con gli alfieri folkelettrici della Oyster Band. Il sodalizio produsse Freedom and Rain, ormai un classico del folk revival britannico. Non sempre il ritrovarsi produce il medesimo incanto, più spesso quella gioia empatica è smarrita tra le pieghe del tempo. D’altra parte, va detto che in questi anni la cantante e la Oyster hanno più volte calcato la scena insieme. Proprio in occasione di una festa-concerto per il trentennale dell’autorevole mensile britannico fRoots sul palco londinese della Roundhouse, è scoccata la scintilla emotiva che li ha condotti a concepire la collaborazione per un nuovo disco. Cosicché, non soddisfatta di averci già dato il magnifico lavoro solista Ashore la Tabor è ritornata in studio con la storica band – che nel frattempo una lieve variazione ortografica ha fatto diventare Oysterband – rinnovando il cammino comune e dando alle stampe Ragged Kindgom, pubblicato dalla gloriosa etichetta Topic Records. L’album è stato nominato disco dell’anno da fRoots e miglior album folk dal periodico pop Mojo, mentre gli artisti sono tra candidati come miglior gruppo agli award folk di BBC Radio 2 che saranno assegnati a Febbraio. Affiancano la Tabor John Jones (voce e organetto), Ray “Chopper” Cooper (violoncello, mandolino, basso, armonium, voce), Dil Davies (batteria), Alan Prosser (chitarre, kantele, violino, voce), Ian Telfer (violino) e il produttore Al Scott (basso, mandola). Nelle note del booklet gli artisti spiegano la genesi dell’opera, mettendo l’accento su come guerra e tribolazioni d’amore ne costituiscano i temi principali facendo da ponte tra le antiche ballate e le canzoni contemporanee. Senza dubbio, col trascorrere degli anni gli orizzonti si sono ampliati, sonorità, timbriche e suggestioni nuove si sono fatte strada, ma persistono anche i punti fermi folklorici, le imprescindibili fonti di ispirazione. L’inizio è fulminante con la nota broadside ballad “Bonny Bunch of Roses”: sound incalzante, la voce di June perfino più bella che in passato; una cavalcata quasi in stile morriconiano conclusa dalle note cristalline del kantele. Il cambio di direzione è repentino, arriva una sbalorditiva rilettura di “That Was My Veil” di PJ Harvey e John Parish per il timbro appassionato e leggermente velato della Tabor. Chitarra acustica, mandolino e violino si incastrano, sostenuti da basso e batteria, esaltando il delizioso duetto vocale con John Jones, perfettamente calzante con la formula del dialogo madre/figlio di “Son of David”. Si tratta della rivisitazione di un altro classico di tradizione orale, proveniente dalla raccolta Child, e conosciuta come “Edward”, di cui ci piace ricordare le versioni di Jeannie Robertson e Ewan MacColl. Da brividi la cover di “Love Will Tear Us Apart”, indimenticabile canzone dei Joy Division, epitaffio di Ian Curtis, già incisa nell’album live Oysterband & friends, intitolato The Big Session, nel 2004. Le voci di June e John duettano ancora magnificamente su un tessuto acustico minimale (chitarra, violino e uno straziante violoncello). Significativa la consapevolezza della cultura folk anglosassone che sa rivolgersi al mondo del pop senza pregiudizi, cogliendo l’emozione, la semplice profondità di una pop song. Si prosegue con un’interpretazione a cappella, per voce e coro di "(When I Was No But) Sweet Sixteen”, commovente ballata proveniente ancora dal repertorio della immensa interprete traveller scozzese. Prevale un incedere folk-rock in “Judas (Was a Red-headed Man)” e in “If my love loves me”: qui la combinazione tra canto di June, impianto ritmico, chitarra e violino produce una narrazione sonora di forte impatto. La tragica “The Hills of Shiloh”, testo novecentesco di Shel Silverstein, fa parte del canzoniere sulla guerra civile americana: una vedova, lacerata dal dolore che l’ha portata alla follia, vaga in abito nuziale per il campo di battaglia, dove il suo futuro marito è caduto, molti anni prima. June canta accompagnata dalla chitarra acustica: sublime. Seguono altre due ballate tradizionali, “Fountains flowing” e “The Leaves Of Life”, potenti, accattivanti e ricche di sfumature timbriche che ci riconducono lungo le strade del miglior folk elettrificato. Tocca poi alla dylaniana “Seven Curses”, in cui il canto di Tabor si compenetra alla perfezione nel suono vertiginoso della band; Jones la spalleggia con dovizia, mentre il violoncello di “Chopper” cava note palpitanti, impadronendosi della scena. S’arriva infine a “Dark end of the street”, malinconiche note di mantice aprono il classico soul di Chips Moman e Dann Penn che abbiamo ascoltato ed amato in mille versioni, poi il violino si unisce al melodeon e alle voci di June e John, chiudendo uno dei capolavori dell’anno appena trascorso, un’opera straordinaria, presentata, peraltro, in un eccellente digipack.
Ciro De Rosa
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