di Michele Gazich
Preambolo
Bob Dylan ha l’età di mio padre e quest’anno mi recherò ad ascoltarlo con mio figlio.
Non è mai stato la voce di una generazione. Neanche di quella degli anni sessanta. “It ain’t me” (Non sono io) diceva sprezzantemente nel ’64 a coloro che volevano farne il vessillo della canzone impegnata.
Dylan è stato ed è molto di più della voce di una generazione. Ci sta ancora parlando, amici.
Racconterò come Dylan ha accompagnato me, non perché la mia vicenda di ascoltatore sia esemplare, ma perché la conosco bene, essendo la mia. “Non canto niente che non sia testimoniato da me”, scriveva il poeta ellenistico Callimaco, invitandoci a non parlare per sentito dire.
Io sono nato nel 1969. Già allora Dylan veniva dato per finito: realizzava un album di Country Music, emblematicamente intitolato Nashville Skyline, che, pur essendo assai venduto, scandalizzò un po’ tutti con versi come “Oh me, oh my, love that country pie” (Ohimé ohimai, mi piace la torta di campagna, Country Pie): scandalizzò coloro che lo avevano amato come il poeta delle canzoni di protesta, il Bertold Brecht americano; coloro che si erano lasciati cullare morbosamente dalle sue oblique canzoni d’amore, come Spanish boots of spanish leather; e infine coloro che avevano amato l’acido poeta, il visionario della trilogia elettrica, che scriveva versi come: “The ghost of electricity howls in the bones of her face” (Un fantasma di elettricità urla nelle ossa del suo viso, Visions of Johanna).
L’anno prima di Nashville Skyline (o, per l’esattezza, il 27 dicembre del 1967), tuttavia, Dylan aveva già pubblicato un album diverso da ogni altro: John Wesley Harding: musica spartana, testi brevi ed essenziali. Dylan, per la prima volta, scrisse prima i testi e poi la musica. L’influenza della Bibbia nella sua scrittura, presente da sempre, è preponderante. Dylan diviene ufficialmente il saggio, il poeta gnomico, cioè il poeta delle sentenze proverbiali, il maestro di morale. Tra Isaia il profeta e Seneca il filosofo latino: “Stay free from petty jealousies / Live by no man’s code / And hold your judgement for yourself / Least you wind up on this road” (Astenetevi da inutili gelosie / Non vivete secondo la morale di un altro / Tenete per voi i vostri giudizi / Se non volete finire su questa strada, I am a lonesome hobo); “If ye cannot bring good news / Then don’t bring any” (Se non puoi portare buone notizie, allora non portarne nessuna, The wicked messenger) e molte altre. Per cui anche le trite banalità Country di Nashville Skyline (Love is all there is / It makes the world go ‘round (L’amore è tutto ciò che esiste / è l’amore che fa girare il mondo, I threw it all away) solo per il fatto di essere pronunciate da Dylan assunsero per alcuni forte veemenza, ma Country Pie fu, come si diceva, un po’ troppo per tutti e ancora peggio l’album, doppio, Selfportrait dell’anno successivo, che condusse il guru della critica musicale americana Greil Marcus a scrivere una violenta stroncatura per la rivista Rolling Stone, che iniziava con le parole: “What is this shit?” (Cos’è questa merda?).
Questo preambolo ha ribadito cose probabilmente note a tutti i lettori di Blogfoolk, e me ne scuso, ma ha avuto la funzione di collocare cronologicamente la mia persona e, di conseguenza, il mio rapporto con Dylan. Ora passerò davvero, seguendo il consiglio di Callimaco, alla mia testimonianza. Non vi parlerò, dunque, del Dylan degli anni Settanta (che è quello che amo di più), perché il mio racconto comincia a metà anni Ottanta, quando diventai ascoltatore di musica conscio e selettivo. Vi parlerò, dunque, di un Dylan meno noto e celebrato, ingiustamente.
Confida in te stesso
Il primo album di Bob Dylan che io acquistai al momento della sua uscita fu Empire Burlesque (1985): non certo l’opera maggiore di Dylan, ma il primo in cui il poeta gnomico cominciò a parlarmi, con una voce antica che gridava in un suo deserto che solo lui percepiva e percorreva dietro ai lussureggianti e plasticati arrangiamenti anni ottanta di Arthur Baker, il rimixatore-produttore di quell’album. “Trust yourself”, “fidati di te stesso” cantava Dylan nell’omonima canzone. Quale maggior sprone ad un adolescente quale io ero allora? Dylan mi ha sempre portato a riflettere su di me: come tutti i grandi maestri non ha messo in scena se stesso; la sua iconica figura e il suo sempre personalissimo cantato sono stati mezzi per far passare il suo messaggio, il suo insegnamento. Nella medesima canzone ribadiva: “Don’t trust me to show you the truth / When the truth may only be ashes and dust / If you want somebody you can trust, trust yourself” (Non confidare che io ti mostri la verità / Potrebbe essere solo cenere e polvere / Se hai bisogno di qualcuno in cui confidare / Confida in te stesso). Da noi sono gli anni della Milano da bere; Dylan è assetato di verità: maestro sempre scalzo, sempre pronto a ricominciare la sua ricerca: “I’ve made shoes for everyone, even you, while I still go barefoot” (Ho fatto scarpe per tutti, anche per te / mentre io vado ancora in giro scalzo), così nell’ultimo verso dell’ultima strofa della canzone I and I, dall’album Infidels (1983), che poco dopo acquistai.
Dylan non smise mai di parlarmi. Avete mai provato a leggere il testo di Death is not the end, canzone apparentemente innocua nella sua placida melodia, contenuta nell’album Down in the groove (1988), album composto prevalentemente di cover o canzoni scritte a quattro mani con altri autori, dunque poco amato dai dylaniani? “When the cities are on fire / With the burning flesh of men /Just remember that death is not the end / And you search in vain to find / just one law-abiding citizen / Just remember that death is not the end” (Quando le città sono in fiamme / E la carne degli uomini brucia / Ricorda che la morte non è la fine / Tu che cerchi di scovare / anche un solo cittadino rispettoso della legge / Ricorda che la morte non è la fine). Io la sentivo ogni sera per rincuorarmi, per darmi forza come una non edulcorata canzone della buonanotte, mentre mi preparavo agli esami di maturità nel giugno di quell’anno.
La fine dell’Innocenza
Poi venne Oh Mercy (1989), con il suo appello alla misericordia, alla resa, a conclusione di un decennio di vincenti e di rampanti. Un decennio di cui ancora stiamo pagando le conseguenze oggi, immersi come siamo in una crisi economica, ma soprattutto religiosa e morale. Cadevano i muri, allora, ma Dylan non suonava marce trionfali. Le prime parole dell’album dicono ancora una volta tutto: “We live in a political world / Love don’t have any place” (Viviamo in un mondo politico / Dove non c’è posto per l’amore) e poi “We live in a political world / Where mercy walks the plank / Life is in mirrors, death disappears / Up the steps into the nearest bank” (Viviamo in un mondo politico, Dove la misericordia è sull’asse dei pirati / La vita è negli specchi e la morte scompare / sugli scalini della banca più vicina, Political World). Dylan profeta di questo nostro povero presente che egli già vedeva, in cui la politica diventa pretesto per affarismo e violenza, in cui la misericordia è condannata, in cui la vita è irreale, mentre la morte, come tutto, si può comprare col denaro. Dylan ci segnalava, invece, che non tutto si può comprare. Dylan ci insegnava ad andare a fondo, a non fare della politica un pretesto per miseri fini. Si chiamava ancora una volta fuori da ogni opportunistico schieramento per predicare l’amore, coraggiosamente. Senza il suo insegnamento non avrei mai scritto, vent’anni dopo, la mia canzone Guerra Civile, in cui parlo di un “Dio che sopravvive nei dettagli / Nelle crepe dei centri commerciali” e di domeniche in cui si impiccano i poeti. Il Dylan di Oh Mercy gridava il nome di Dio in tempi senza Dio, anche nel totale smarrimento: “… shout the God’s name / But you’re never sure what it is” … grida il nome di Dio, anche se non saprai mai cosa sia, Political world). Dylan invitava a suonare le campane, perché stava morendo l’innocenza (Ring them bells for the time that flies / For the child that cries / When innocence dies, Suona le campane per il tempo che fugge / Per il bimbo che piange / Per l’innocenza che muore, Ring them bells).
Nursery Rhymes
Nel 1990 Dylan, al solito, non rifece l’album dell’anno precedente. I suoni sono diversi, più colorati; i produttori Don Was e Jack Was, nominalmente affiancati da Dylan stesso (con pseudonimo Jack Frost), coinvolsero un sacco di ospiti (da Slash a Elton John a David Crosby) per un album che, forse, nelle intenzioni del suo autore, avrebbe dovuto suonare ancora più intimo del precedente. Tutti i testi dell’album sono infatti costruiti sulla falsariga delle Nursery Rhymes di matrice anglosassone, poi trapiantate anche in America. Sono le filastrocche per l’infanzia, che, sovrapposte al linguaggio di matrice biblica di Dylan creano un insieme ricco di ancestrale saggezza. La saggezza di Dylan questa volta si offre a noi con infinito candore: si avvia, a partire da questo album, un processo di riappropriazione di se stesso, delle proprie origini in molti sensi, come vedremo.
È stato, per me, come penso per molti di voi, amici, una circostanza eccezionale essere testimoni di questo progetto dylaniano di rilettura di sé, in cui l’artista ha coinvolto generosamente noi, i suoi ascoltatori. Ma andiamo per gradi. La canzone Under the red sky, che dà il titolo all’album è una sorta di evocativo accrocchio di nursery rhymes: “There was a little boy and there was a little girl / and they lived in an alley under the red sky (C’era una volta un bambino e c’era una volta una bambina / Che vivevano in un vicoletto sotto il cielo rosso) … One day the little boy and the little girl were both baked in a pie (Un giorno il bambino e la bambina finirono cotti dentro una torta”, e così via. Per leggere gli originali, da cui Dylan recupera vari elementi, consiglierei l’esemplare Oxford Dictionary of Nursery Rhymes di Iona e Peter Opie (1945), più volte ristampato fino ai giorni nostri.
Dylan, dicevamo, ci riporta alla sua e alla nostra infanzia, a uno stadio prima della coscienza. L’album Under the red sky fu per me una sorta di breviario zen di consolazione, una collezione di mantra, un luogo in cui rifugiarmi se la vita quotidiana era troppo crudele: “One by one, they followed the sun / One by one, until they were none / Two by two, to their lovers they flew / Two by two, into the foggy dew” (Uno per uno seguivano il sole / Uno per uno finché non ci fu più nessuno / Due per due volavano dai loro amori / Due per due nella rugiada del mattino, Two by two). Ma non c’era solo consolazione in questo album, anche molto millenarismo, candidamente proposto tra una filastrocca e l’altra: “God knows there’s gonna be no more water / but fire next time” (Dio sa che non ci sarà più l’acqua / Ma il fuoco la prossima volta, God knows): Dylan cita apertamente San Paolo, la Seconda Lettera ai Tessalonicesi e altri testi biblici, dove si annuncia che il ritorno di Cristo, o la fine del mondo, sarà con il fuoco; che non ci sarà un altro diluvio, come ipotizzava ancora nella sua giovanile Times they are a-changin: “ Come gather ‘round people / Wherever you roam / And admit that the waters / Around you have grown”.
È forse solo un vaga allusione per ora, ma, tra breve, le allusioni al suo passato, in una sorta di costante riscrittura si faranno sempre più stringenti e frequenti. Prima, però, di tornare a sé, Dylan si rivolge, dopo le rime infantili, ancora più indietro: a quelle canzoni folk, di matrice inglese, ma poi sempre più americane, sulle quali aveva plasmato le sue prime composizioni.
Folk songs
Sono gli anni degli album Good as I been to you (1992) e World gone wrong (1993), che meriterebbero un saggio a parte, amici, e forse avremo modo di riparlarne presto. Sono album interamente composti da canzoni tradizionali, suonate e cantate da Dylan da solo: chitarra e voce. Molto è stato scritto sulle fonti di questo materiale e ognuno di noi, amanti del folk, ha fatto le sue ricerche. E ci ritorneremo. Per ora ci basti osservare come Dylan, il più grande autore di canzoni vivente, raggiunti i cinquant’anni, faccia un passo indietro e ci additi queste meravigliose novelle in miniatura, come ad esempio Black Jack Davey o Jack-a-Roe, storie, rispettivamente, d’amore extraconiugale o di matrimonio felicemente raggiunto, narrate con esemplare cura del particolare e per questo selezionate dalla tradizione: “Last night I slept in a feather bed / Between my husband and baby / Tonight I lay on the river banks / in the arms of Black Jack Davey / Love my Black Jack Davey” (La notte scorsa dormivo in un letto di piume / Tra mio marito e mio figlio / Stanotte dormo sulle sponde del fiume tra le braccia di Black Jack Davey / Amo Black Jack Davey). Qui si ribadisce con incisività, sull’accompagnamento di una musica inesorabile, la forza brutale della passione amorosa, che spinge ad abbandonare qualunque affetto e comodità, senza rimorso.
La pubblicazione di questi album mi spinse a studiare il folk, non solo americano, e scoprii, in tante tradizioni europee e americane autentici maestri di violino o di fiddle che dir si voglia, che mi hanno molto insegnato. Sono, inoltre, gli anni in cui si apre la mia collaborazione con Michelle Shocked, che procede ancor oggi, dopo quasi vent’anni. Michelle, allora, portava in tour l’album Arkansas Traveler (1992), che era, ancora una volta, una rivisitazione delle radici folk della sua scrittura. I primi anni Novanta, grazie a soprattutto a Dylan, furono per me gli anni dello studio e dell’approfondimento delle tradizioni folk.
Aggiungerò solo una postilla. La prima canzone del primo album folk dei novanta di Bob Dylan, cioè di Good as I been to you, è Frankie and Albert, non a caso. Il segnale è forte: la versione di Dylan è una riproposizione pressoché alla lettera dell’esemplare esecuzione di Mississippi John Hurt, registrata il giorno di San Valentino nel 1928 e recuperata da Harry Smith per la sua antologia del 1955.
Per i pochi che non lo sanno, Harry Smith fu una bizzarra figura di mistico, pensatore, artista, collezionista e amico di Allen Ginsberg, una sorta di Giordano Bruno del folk, che decise di collezionare e ristampare, per la sua antologia del 1955, ottantaquattro brani tradizionali, registrati soprattutto alla fine degli anni venti. L’impatto della sua raccolta fu immenso, anche se riconosciuto con lentezza, come per tutte le grandi opere. Harry Smith, per altro, non chiarì, nel 1955, quali artisti fossero bianchi e quali neri fra quelli registrati e ciò creò, nell’America ancora fortemente razzista degli anni cinquanta, una feconda confusione di razze e di stili musicali. E fu soprattutto grazie alla Anthology of American Folk Music di Harry Smith che nacque il folk revival, all’inizio degli anni sessanta e poi i primi cantautori nella accezione moderna di questa parola, tra cui Dylan, Eric Andersen, Phil Ochs e tanti altri, che alle melodie folk tradizionali sovrapposero parole contemporanee. Non sarò mai abbastanza grato a Dylan per avermi aperto tutto questo mondo con i suoi album folk.
Di soglia in soglia
Di soglia in soglia è il titolo di una raccolta del poeta di cultura ebraica Paul Celan, di certo non ignorato da Dylan. Ma anche su questo argomento torneremo, cercando, in un prossimo eventuale intervento di ricostruire, di allusione in allusione, di citazione in citazione la biblioteca di Bob Dylan. Ora abbiamo solo preso a prestito un titolo per parlare di soglie. Ricordate la già citata Times they are a-changin? In quella remota canzone, Dylan invitava a non stare sulla soglia, a non bloccare il passaggio (“Don’t stand on the doorway, don’t block up the hall”); negli anni novanta, invece, sceglie addirittura di intitolare una canzone Standing on the doorway, ribaltando il concetto. Nella canzone si dipinge, “Standing on the doorway, crying” (immobile alla soglia, in lacrime). La canzone è tratta dall’album del 1997 Time out of mind, tutto percorso da esplicite allusioni di Dylan a canzoni passate, per le quali si propone come una sorta di aggiornamento.
Ma c’è ancora di più, amici: “When you got nothing, you got nothing to lose” (Quando non hai niente, non hai niente da perdere) , cantava Dylan nella celeberrima Like a rolling stone (1965); “When you think that you lost everything / You find out you can always lose a little more” (Quando pensi di aver perso tutto, scoprirai che puoi perdere ancora qualcosina), sottolinea in Trying to get to heaven, sempre da Time out of mind. E ancora, sempre nella stessa canzone si rappresenta “trying to get to heaven before they close the door”, cioè nel tentativo di andare in cielo, come se la porta a cui aveva tanto bussato (Knockin’ on heaven’s door, 1973), si fosse infine aperta.
Bob Dylan per i puri di cuore
Questi sono solo alcuni spunti che hanno percorso il mio personale ascolto di Bob Dylan negli anni Ottanta e Novanta. Molto ci sarebbe da aggiungere sul sorprendente Dylan dei Duemila, in cui il gioco dei rimandi e delle citazioni proprie e altrui si fa ancora più serrato.
Concludo, tuttavia, qui, per ora, citando la risposta che Dylan dette a Paul Zollo, nell’ambito di una delle più ricche interviste mai rilasciate dall’artista (siamo nel 1991), non a caso inclusa nell’imprescindibile Songwriters on songwriting, dove Paul Zollo raccoglie interviste ai massimi autori di canzoni contemporanei, incentrate esplicitamente sulla scrittura delle canzoni. A metà intervista, Dylan dice che il mondo forse non ha più bisogno di canzoni, sue o altrui; ce ne sono già state tante, fin troppe. Poi, improvvisamente, si risveglia in lui il profeta, il filosofo gnomico e aggiunge: “Unless someone’s gonna come along with a pure heart and has something to say. That’s a different story” (A meno che non salti fuori qualcuno con un cuore puro e con qualcosa da dire. Sarebbe un’altra storia.) Un sorprendente invito agli aspiranti scrittori ad avere innanzitutto il cuore puro, prima di pensare al successo, alla TV e a tutta la spazzatura contemporanea che può solo sporcarne il cuore.
Questo è il lascito di Bob Dylan, questo racconterò a mio figlio poco prima che senta dal vivo la sua voce.
Copyright 2011 by Michele Gazich. Il presente testo è di proprietà dell'autore
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Minima Musicalia