La pubblicazione di Lengua Serpentina, che gli ha fruttato il premio Viarengo, è l’occasione giusta per intervistare Roberta Alloisio. Con lei abbiamo ripercorso tutta la sua carriera dagli esordi fino al disco più recente di cui ce ne svela segreti, ispirazioni e suggestioni…
Vorrei cominciare la nostra intervista con un salto indietro nel tempo ovvero ai tuoi esordi ed in particolare al teatro, che ha in qualche modo caratterizzato la tua vita...
L’ha caratterizzata da prima che nascessi. Pare che mio nonno abbia incontrato mia nonna durante uno spettacolo di piazza, mentre tutti e due guardavano col naso all’insù il passaggio di un funambolo. Mio padre poi conobbe mia madre perché cercava una cantante per una delle sue “riviste”. Era il dopoguerra e lui aveva una piccola compagnia teatrale, e lei si presentò al provino. Insomma sembra un’esperimento di psicogenealogia…piacerebbe a Jodorowsky! Poi quella che nei miei è sempre stata una passione, sfociò negli anni ’70 in spettacoli che mio padre metteva in scena con i giovani del quartiere in cui vivevamo. E’ stato naturale quindi per me e mio fratello essere da subito sul palco. Io avevo 8 anni e Giampiero 16, ed è stato proprio lui, che già a 18 aveva scritto Venezia che poi cantò Francesco Guccini, a portarmi, più tardi da Giorgio Gaber. Gaber si è ritrovato un’adolescente scontrosa e un po’ selvatica, tanto che conservo un biglietto che mi arrivò insieme alle rose per la prima dello spettacolo “I viaggi di Gulliver”, di cui lui curava la regia per il Teatro Carcano, con su scritto “Qualche sorriso in più sarebbe gradito…” da allora ogni sorriso è dedicato… Il teatro mi ha insegnato uno strano rigore, sua caratteristica profonda, che continua ad appassionarmi quando la incontro. Anche se in forme differenti, dalla precisione maniacale di Gaber, alla poesia di Ceronetti o alla gioiosa fatica collettiva condivisa con i colleghi del Teatro della Tosse. Certo i linguaggi ora si mescolano in continuazione, ogni cosa contamina l’altra e l’arricchisce. Credo, spero, sia questa la mia forza, anche come interprete.
Parallelamente al teatro hai coltivato la tua passione per la musica, nel 2000 hai partecipato al tributo a Fabrizio De Andrè...
A casa, di musica, se ne ascoltava davvero tanta, e di tutti generi, dalla lirica alla musica leggera, dal folk agli chansonnier francesi. Quando andavamo in vacanza, stipati in una seicento, mia madre ci insegnava a cantare a tre voci, regalando a noi tutti intonazione e divertimento, ma soprattutto era quando alla radio o alla televisione comparivano gli “imperdibili” che avveniva la nostra formazione. Lei chiamava tutta la famiglia e vai, tutti rapiti ad ascoltare Mina, Gaber, Battisti, De Andrè, Guccini.. Poi devo dire che in questa famiglia un po’ “spessa”, dove tutti erano più grandi e perennemente impegnati a fare la rivoluzione, il canto per me rappresentava una della poche chance di espressione più profonda. Cantavo, ancora e ancora, segretamente, quando tutti uscivano, di nascosto chiusa nella mia stanza, e che fatica uscirne! Ancora adesso tremo se devo cantare davanti agli amici o a poche persone! E anche la mia sordità deve aver contribuito. Da piccola ho avuto molti problemi con l’udito, che ancora adesso non è perfetto, quindi credo di avere un ascolto interno molto accentuato. Probabilmente io continuo a cullarmi. Il tributo a De Andrè è stato un treno preso a metà, mi voleva Don Gallo, dicendo “ma belin perchè invece di andare a parlare sempre di tossici e prostitute stavolta non ci mandiamo la Roberta che canta per tutti noi, che ci rappresenta cantando una bella canzone di Fabrizio?”. Solo che io ero ancora nella stanzetta, ero incinta di otto mesi, mi sentivo molto fragile, e poi so di non essere “agguerrita”, ho preferito andare con Giampiero, proponendo tra l’altro un brano che parlava proprio di uno dei ragazzi della Comunità di Don Gallo. Quando dopo di noi Celentano è incappato in quella tremenda amnesia io mi sono sentita in colpa, era come se io me la fossi risparmiata e se la fosse beccata lui. Pazzesco, sapevo che se fossi andata da sola sarebbe successo a me. Ma devo dire che la presenza di una “pancia” su quel palco, proprio mentre si celebrava una morte è stata profondamente commovente, così come commovente sono state le manifestazioni d’affetto della gente per strada nei giorni seguenti, tutti l’hanno vissuta come una presenza simbolica, e io conservo per mio figlio la foto di Piazza De Ferrari stracolma di gente, in fondo lui c’era.
Parlando di Fabrizio De Andrè il tuo album, Lengua Serpentina, sembra una sorta di figlio di Creuza De Ma, Quanto c'è di Faber nel tuo modo di fare canzone...
Fabrizio De Andrè ha sdoganato il dialetto genovese, prima di “Creuza De Ma” per molti di noi il dialetto era considerato “volgare”, qualcosa di molto basso, anche se abbiamo avuto un grandissimo Gilberto Govi, padre di tutta una schiera di grandi comici genovesi, da Grillo a Crozza, a Luca e Paolo. E negli arrangiamenti, lui e Pagani hanno riportato Genova al centro del mondo, del Mediterraneo, riportando in auge la Storia della città, che per molto tempo era stata dimenticata, rimossa. Prima di lui era come se della Superba, musicalmente, rimanesse poco. C’era si l’esperienza straordinaria del Trallalero, ma per il resto era come se non avessimo nulla o poco da cantare. Lui però l’ha fatto da grande autore e poeta qual’era, la mia è stata un’opera di ago e filo…
Il dialetto genovese, sembra essere tornato di moda e non solo per il tuo splendido disco ma anche per quello più recente di De Scalzi. Cosa ha rappresentato per te questa scelta del genovese per le tue canzoni?
Ho avuto la fortuna di lavorare molti anni al Teatro della Tosse, e Tonino Conte, il suo direttore, peraltro napoletano, ha sempre avuto la libertà e la curiosità di indagare la letteratura genovese, facendo musicare già vent’anni fa, i primi manoscritti genovesi datati intorno al 1200. Io avevo cantato quelle cose già allora, e avevo sentito che lavorare su un linguaggio che simbolicamente richiamasse in maniera così prepotente le radici di una moltitudine, e le mie stesse radici di donna ligure, figlia, nipote, di donne che cantavano alle finestre facendo “i lavori” o aspettando i mariti che tornavano dal mare, era una grande libertà, e stranamente la voce si faceva più autentica, si irrobustiva di significato. Anche nei laboratori che si fanno nelle scuole o nelle grandi accademie di teatro si usa il dialetto per “sciogliere” l’espressione. E’ una tecnica, così capita di sentire Amleto che parla in napoletano, genovese, veneto…
Venendo più direttamente a Lengua Serpentina, ci puoi parlare com'è nato questo progetto e sopratutto com'è nata la tua collaborazione con l'Orchestra Bailam?
Grazie a Carla Peirolero, fondatrice del Festival Suq, nel 2004 ci siamo trovati in Russia a dover rappresentare Genova in una rassegna teatrale, e quando io mi sono chiesta che cosa potessi cantare, ho avuto la fortuna di avere vicino a me gli strepitosi musicisti dell’Orchestra Bailam che ostinatamente si rifiutavano di “toccare” De Andrè, e quindi sono stata costretta con il loro aiuto a rispolverare quel famoso repertorio affrontato anni prima al Teatro della Tosse. E ad accorgermi che l’atmosfera che si creava mentre eseguivamo “Noi che semper naveghemmo”, tratto dal Manoscritto dell’Anonimo Genovese del 1200, ad esempio, riportava perfettamente in vita la nostra Storia, la nostra cultura, il nostro essere “genovesi”. E’ stato quindi naturale proseguire quegli esperimenti, e far nascere “Lengua Serpentina”, grazie soprattutto agli arrangiamenti di Franco Minelli, leader dell’Orchestra Bailam, che si è appassionato al progetto, anche cominciando a scrivere nuovi brani, sempre però su testi recuperati dalla tradizione letteraria, colta o popolare, che io cucivo insieme. Per questo parlo di ago e filo…
Leggendo le varie recensioni di Lengua Serpentina ho letto sempre la parola contaminazione, tuttavia non trovi che Genova, in virtù della sua posizione geografica sia stata un po' culla e allo stesso tempo la cassaforte di quelle sonorità e culture che hanno viaggiato sulle onde del
mediterraneo?
Si assolutamente! Questa è stata la grandezza di De Andrè… ricordarcelo! Perché noi ce l’eravamo dimenticato. Il nostro dialetto è infarcito di termini arabi, greci, spagnoli, ci sono pezzi di Genova sparsi in tutto il mediterraneo, dove abbiamo anche avuto la fortuna di suonare. Ad Istambul c’è la Torre Galata e tutto un quartiere genovese, a Sudak, in Ucraina, sul Mar Nero, c’è una grandiosa fortezza con 12 torri dove nel 1600 vivevano 9000 genovesi. Genova era una città dove i musulmani avevano diritto di preghiera, c’erano moschee nelle zone del porto dove recitavano il Corano guidati dal Papa Nero, chiamato in dialetto “U Papasso”. Era dunque un brulicare di suoni e lingue.
E sempre citando l’Anonimo Genovese:
Tanto numerose sono le persone straniere
sia in città sia lungo la costa
con navi piccole e grandi
che giungono piene di mercanzie
che tutti i giorni, mattina e sera
le strade sono molto affollate…
Addirittura lui dice “troppo affollate” pensa che casino doveva essere….
Ci puoi parlare del lavoro di ricerca compiuto sulle fonti tradizionali, visto che nel disco spesso ricorrono brani risalenti addirittura al Medio-Evo?
Come ho già detto, conoscevo l’esistenza di materiale “importante” già da diverso tempo, la cosa che mi colpiva anzi era che nessuno ne avesse ancora fatto niente. Perché De Andrè ha lavorato da autore, ricreandolo quasi il dialetto, rievocandolo, anche se qualcosa ha preso dalla tradizione, come poi ho scoperto, ad esempio il ritornello di “A Cimma”, è una formula magica che i cuochi usavano per curare le bruciature, e anche l’inizio di “Creuza De Ma”, se ci fai caso, è un omaggio proprio a “Lengua Serpentina” di Ceriana (Imperia). Comunque io ero incuriosita dal fatto che nessuno avesse ancora usato tutto ‘sto ben di Dio, anzi devo dirti che ho spinto per fare il disco velocemente perchè mi sembrava anche strano che nessuna voce femminile l’avesse affrontato. Ascoltavo fado, flamenco, morna, canti siciliani e canti sardi, la grande Elena Ledda e Yasmine Levy, Maria del Mar Bonet e Dulce Pontes e pensavo “ma perché io non posso cantare qualcosa di altrettanto “emotivo” nella mia lingua?” E’ così che è nato “Lengua Serpentina”, come una sorta di “falso storico” ricreato però rigorosamente su testi originali, era quello che secondo me costruiva le fondamenta del progetto, il fatto di avere in bocca “pietra”, parole antiche che davvero rappresentavano da secoli il nostro vivere. E poi come si dice in dialetto “raccatto” tutto quello che trovo nelle biblioteche, sulle bancarelle, e ho anche scoperto, nelle carte di mio padre, che è mancato prima che uscisse il disco, che anche lui aveva raccolto molto materiale sulla tradizione popolare genovese e del basso Piemonte, e pensa che senza sapere nulla a volte ho scelto le stesse cose.
Sarebbe interessante per i nostri lettori conoscere qualcosa di più di Soffio brano ispirato alla Divina Commedia e alla Bibbia...
“Soffio” nasce per “Esistenza Soffio che ha Fame” spettacolo con Don Gallo e Carla Peirolero dedicato a Qohelet, libro sapienziale della Bibbia. L’abbiamo scritta io e Edmondo Romano su una traduzione di Guido Ceronetti, e ci è sembrata da subito molto intensa, era anche un momento di grande sintonia tra noi e ci sembrava bello inserirla nel cd, anche se alcuni erano perplessi, in fondo questo cd ha due anime: una più barricadiera e casinara, e un’altra voluta fortemente da me e Edmondo Romano, dove fosse possibile una maggiore morbidezza…però la difficoltа dell’inserimento stava proprio in questo, rischiava di essere pretestuoso inserire una cosa in italiano in un cd quasi completamente in dialetto…ed ecco quindi un escamotage teatrale: in fondo “Soffio” racconta della vita che passa, in un soffio appunto, dei capelli che non torneranno mai più neri, e tutto questo cantato dalla mia voce, una voce in qualche modo “giovane” ancora lontana dalla vecchiaia. Quindi mi è sembrato affascinante che a precedere il canto ci fosse, recitata, una voce di una grande attrice dialettale 80enne, Germana Venanzini, che recitando un frammento di Paolo e Francesca della Divina Commedia, parlasse di un amore così forte, insomma mentre la voce giovane parla di rinuncia, la voce anziana invita alla passione. E mi sembrava anche un bel modo di far conoscere la Divina Commedia nella bellissima traduzione dell’Abate Gazzo. Perché la Divina Commedia è tradotta non solo in tutte le lingue del mondo ma anche in tutti i dialetti italiani, bisogna saperlo! Io ha la fortuna di lavorare con Paola Bigatto che fa spettacoli proprio su questo, è grazie a lei che esiste quel brano…
Il disco spazia anche verso altre tradizioni penso a quella rom in Siuscia e Sciorbi o a Ya Salm per quanto riguarda quella araba, come sei riuscita a rendere il suono omogeneo...
Questo è un miracolo di Franco Minelli, è lui che ha curato gli arrangiamenti, anche se io ho voluto nel disco altre cose, tipo “Amor non ti partire” o i brani di Edmondo Romano, perché avevo voglia di “isole”, di avere ogni tanto un clima più largo, evocativo… Però ripeto, riguardo al suono e agli arrangiamenti grazie Franco! Grazie Orchestra Bailam! Tutti musicisti strepitosi con un’energia straordinaria! E poi sono anche belli…
Da amante della storia Medioevale mi ha colpito molto Il Santo Graal, brano scritto da te e senza dubbio uno dei più riusciti del disco, ci puoi raccontare qualcosa a riguardo?
E’ un brano nato per uno spettacolo teatrale. La moglie di Giampiero, Simonetta Cerrini, filologa, ha scritto un bellissimo libro sui templari “la Rivoluzione dei Templari” appunto, edito in Italia da Mondadori. Da questo libro tempo fa avevamo tratto spunto per uno spettacolo di massa (spettacoli ideati da Giampiero dove i professionisti si mescolano con decine, a volte centinaia, di cittadini-artisti, un po’ sulla falsariga dei Sacri Misteri). Nello spettacolo però aveva una ritmica totalmente differente, sarebbe stato difficile inserirlo così com’era. Allora ho chiesto a Franco di stravolgerlo, e lui, grande cultore della muisca mediorientale, ha ideato questa specie di “taxim”, dove la voce e l’oud dialogano…
Sul tuo sito, tra i tuoi progetti ho visto diverse proposte interessanti come Qohelet, Via del Cinque e Indiavolate, puoi illustrarli ai nostri lettori?
Io credo che al di là di tutte le lamentele che sento, e noi genovesi di “mugugno” ce ne intendiamo, ci sia spazio per il bello. Solo che il nostro essere artisti non può più essere passivo. Deve essere propositivo e imprenditoriale. Forse questo mio pensiero nasce dal fatto che ho mancato il successo commerciale o forse non l’ho neanche cercato, non mi ricordo, e quindi assurdamente sono più libera nei contenuti. Quindi si, forse fatico un po’, non ho la villa, anche se vivo dignitosamente del mio lavoro, ma posso e devo proporre in continuazione, inventarmi formule nuove, lontane dagli stereotipi e dall’ego. Così nascono questi vari spettacoli… “Esistenza Soffio che ha Fame” è nato perché Carla Peirolero, in piena crisi sentimentale, è andata disperata da Don Gallo (lui nello spettacolo lo racconta e dice “eri veramente messa male…”). Nel cercare di confortarla lui le ha appunto regalato Qohetet nella strepitosa traduzione di Ceronetti, dicendole “magari ci fai uno spettacolo”. Io, che ancora credo ai “segni” dico “si, facciamolo, vedrai guarirai, guariremo tutti facendolo!” Non so se siamo guariti, però lo spettacolo è molto bello, parliamo di cose che ci toccano profondamente ed ha avuto un grande e vero riscontro presso pubblico e critica, e continua a girare. “La Via del Cinque” nasce con Paola Bigatto, attrice di grande cultura e ironia, che ama rielaborare materiale inusuale con grande intelligenza. Con lei abbiamo pensato a dei progetti confezionati apposta per i Musei di Genova. A volte itinerando proprio tra i quadri. E’ stata un’esperienza molto bella, perchè c’è sempre stata la libertà di fare cultura senza bisogno di proporre prodotti commerciali. Ma il bello è che spesso abbiamo potuto scegliere materiale altrimenti improponibile, tipo il manuale di ricette della compagna di Gertrude Stein da cui è nato “Un pesce per Picasso” per la Galleria d’Arte Moderna o “La donna perfetta” raccolta di consigli alle spose dal 1300 agli anni ’50, creato per il salotto buono di Villa Luxoro. “Indiavolate” nasce dalla simpatia immediata per Patrizia Merciari, bellissima fisarmonicista bionda. E’ stata lei che dopo avermi sentito cantare mi ha contattato, e io che comunque stavo già lavorando da un po’ di tempo con l’Orchestra Bailam, ho preso come un ulteriore “segno” la sua telefonata, pensando che due donne e una fisarmonica fosse una proposta perfetta, agile e accattivante. Lei è una sorta di bambina prodigio, che giovanissima ha vinto un sacco di premi importanti in questo strano mondo, a me prima sconosciuto, della fisarmonica. E’ nato così questo recital, coraggioso e un po’ retrò, dove io in realtà pensavo che avremmo fatto più “sperimentazione” e che invece è diventato l’evocazione di un mondo lontano, tra la balera e il caffè chantant, con momenti esilaranti dove, nel recupero di certe macchiette anni ’30, o nella riproposta di brani finto popolari che Gaber e Luporini scrivevano per Ombretta Colli, io finalmente scateno la mia parte comica.
Con tuo fratello Giampiero hai lavorato all'Assemblea Musicale Teatrale con cui hai anche inciso un disco per Storie di Note, ci puoi raccontare quest'avventura, che tra l'altro ti ha visto debuttare nel 1977...
Nel 1977 al Premio Tenco, avevo 13 anni, i codini e il naso da clown, spero vivamente che il destino mi conceda una seconda occasione, con un’immagine più dignitosa almeno. Che dire, in famiglia eravamo abituati a mescolare tutto, dal Gruppo Teatro Quartiere di Oregina creato da papà, per cui Giampiero scrisse le canzoni dei primi spettacoli, nel giro di qualche anno si passò alla nascita dell’Assemblea Musicale Teatrale. Ricordo ancora l’emozione di quando andavo a vedere mio fratello e io che ero in platea, soffrivo per lui. Il gruppo ebbe un successo strepitoso, tanto che Guccini li volle come gruppo spalla. Si facevano i palasport allora. Ma io avevo la scuola, facevo le medie, e al momento di scegliere tra liceo artistico e la vita randagia del teatro, ho preferito la scuola, pentendomi quasi subito, ma in realtа io credo ci fosse già la voglia di affermarmi autonomamente. Tutta la vita ho combattuto con il fatto di essere “la sorella di”, tra l’altro Giampiero non era solo famoso e precoce, ma anche oggettivamente, e non lo dico da sorella, quasi un genio, lui scrive testi e musiche delle sue canzoni, è un drammaturgo raffinato, canta e recita benissimo, ha una memoria mostruosa e una testa che funziona a una velocità doppia rispetto a quella degli altri, insomma era proprio un casino averlo vicino, altro che autostima, ti senti sempre e comunque una larva. Finalmente con “Lengua Serpentina”, a quarant’anni, me ne sono liberata… con amore, infatti lavoriamo ancora insieme.
Tornando alla tua carriera, Lengua Serpentina ha raccolto molti consensi, e vinto vari premi tra cui il prestigioso Viarengo, avrà un seguito a breve? Quali sono in particolare i tuoi progetti futuri?
Ho debuttato qualche sera fa con la nuova formazione composta da Fabio Vernizzi al piano, Marco Fadda alle percussioni e Riccardo Barbera al contrabbasso. E entro pochi giorni entreremo in sala. Certamente altre sonorità per il nuovo disco, dove affronterò anche qualche tradizionale vero questa volta, ma sto ancora “partorendo”. E’ difficile anticipare, come avrai capito, lavoro sempre con un misto di volontà, caso, fiducia, destino, accoglienza. Wna “visione”, in qualche modo precisa, che intuitivamente controllo, che però si arricchisce continuamente e costantemente dell’apporto dei generosi compagni di viaggio che incontro. Quindi per scaramanzia preferirei non parlarne troppo!
Il premio Viarengo è arrivato a celebrare l’altro mio pezzo di mondo, le altre mie radici. Per metà io sono infatti piemontese, quando mi hanno detto che avevo vinto, intanto ho pianto perché mi è sembrata la prima cosa gratis della mia vita, e poi ho pensato che nonna Rita e bisnonna Taviula dovevano, da lassù, averci messo lo zampino. Mi piacerebbe nel nuovo disco fare un omaggio a Teresa. Con molto piacere ti parlo invece di “Tutte le carte in regola per essere Piero” teatro-canzone dedicato a Piero Ciampi, con Adolfo Margiotta e Fabio Vernizzi al piano. Nasce da un’idea di Adolfo ma so di essere stata motore di questa cosa, chiedendo a Giampiero di scriverne il testo e al Teatro della Tosse di produrlo. E così è stato! Sono felice perché siamo riusciti a creare uno spettacolo emotivo, stando lontani dallo stereotipo di un Ciampi perennemente maledetto e alcolizzato, aprendo lo spettacolo a un discorso più ampio sull’essere artisti oggi e sul rapporto tra uomo e donna. E poi quando replichiamo vedo crescere ogni sera il talento di Margiotta che tra l’altro canta come pochi attori fanno. E mi commuovo pensando che forse con la mia presenza in scena è come se contribuissi a lenire un po’ la solitudine del vero Ciampi…almeno simbolicamente. Insomma a me sembra di essergli vicino per davvero…
Salvatore Esposito