Si prosegue con il saggio “E Maria Catalda balla ancora… Notarelle paesane sul “Ballo della tarantola”” di Antonio Basile che si propone come una microstoria etnografica del tarantismo nell’area jonica, in particolare nella città di Taranto, con uno sguardo attento sia alla dimensione mitico-rituale che alla stratificazione socioeconomica e simbolica del fenomeno. Santoro a riguardo rimarca: “Lo stile di Antonio Basile è molto puntuale ma godibile e a tratti ironico. Dai suoi studi emerge un’enorme quantità di documentazione ambientata tra Taranto e le zone limitrofe, con testimonianze che arrivano fino a tempi recentissimi. Nella parte salentina della provincia di Taranto, infatti, il tarantismo è stato osservato fino agli anni Settanta (e forse anche oltre), ma De Martino non si spinse mai in quella zona, e per questo quell’intera area è rimasta quasi completamente ignorata dalla grande narrazione ufficiale”. Basile ripercorre con metodo storico-antropologico le molteplici letture offerte nel tempo al tarantismo – dalla patologia tossica alla possessione simbolica, dalla superstizione alla crisi culturale – soffermandosi in particolare sull’interpretazione demartiniana e sulle sue riletture successive (Bronzini, Rouget). Tuttavia, il punto di forza del contributo sta nell’analisi delle fonti locali e nella ricostruzione delle pratiche coreutico-musicali in chiave diagnostica e terapeutica: attraverso testimonianze d’archivio, racconti orali, cronache scolastiche di fine Ottocento e fonti mediche dimenticate, Basile evidenzia come a Taranto il fenomeno tarantistico si sviluppi con caratteristiche proprie, in assenza di una devozione paolina diffusa e con una forte insistenza sul ruolo degli strumenti musicali, dei musici-esorcisti e della domesticità della cura. L’animale-monstrum ‘taranta’ – che sfugge a qualsiasi classificazione zoologica univoca – diventa così metafora di un trauma collettivo inscritto nella vita contadina e urbana, in cui i conflitti individuali e sociali vengono trasfigurati in sintomo simbolico, e la danza diventa gesto rituale di reintegrazione.
Sandra Taveri nell’intervento “Fonti e testimonianze del tarantismo brindisino”, si sofferma su un’area spesso marginalizzata nelle narrazioni canoniche. Attraverso un’attenta lettura di fonti d’archivio e testimonianze orali, Taveri mostra come il tarantismo brindisino, pur condividendo tratti comuni con altre aree pugliesi, presenti proprie peculiarità, legate anche alla stratificazione religiosa e al culto dei santi taumaturghi locali. Il saggio offre un contributo prezioso alla costruzione di una mappa più articolata del fenomeno, dove il tarantismo si rivela non come un monolite ma come un campo dinamico di differenze locali, variazioni rituali e sedimentazioni simboliche.
Il contributo di Eugenio Imbriani, “Tarantismo e ibridazioni”, costituisce uno dei momenti più alti del volume. Riprendendo criticamente l’impianto teorico di Ernesto de Martino, Imbriani riflette sui processi di patrimonializzazione e sulla tensione tra autenticità e spettacolarizzazione, tra religiosità e rappresentazione, che caratterizza la ricezione contemporanea del tarantismo. L’autore propone una lettura del fenomeno in termini di “ibrido culturale”, segnato da stratificazioni semantiche e da metamorfosi storiche che ne sfuggono ogni fissazione normativa: il tarantismo è al contempo rito e performance, memoria e rimozione, tradizione e reinvenzione. In questa prospettiva, il revival contemporaneo non è solo travisamento o espropriazione, ma anche nuova scena in cui si gioca la sopravvivenza simbolica di un patrimonio mobile e controverso. A riguardo Santoro spiega: “De Martino si inseriva, infatti, in un clima culturale ben definito, quello che si era sviluppato anche intorno alla pubblicazione di ‘Cristo si è fermato a Eboli’ di Carlo Levi. Era un ambiente popolato da sociologi, antropologi, intellettuali, che riflettevano criticamente sul Mezzogiorno. La lettura del tarantismo di de Martino – che lui vedeva non a caso come un “contributo a una storia religiosa del Sud - si immette perfettamente in questo circuito culturale. Imbriani accenna anche a una questione che poi sviluppa in un altro saggio più approfondito: la natura sfuggente e multiforme del tarantismo, a partire dalla stessa figura della taranta. Perché che cos’è, davvero, la taranta? Un ragno? E quale ragno, di preciso? Ma anche un serpente, uno scorpione… È una sorta di ircocervo, una creatura immaginaria che appare e scompare, continuamente cangiante, simbolica e concreta al tempo stesso. E anche in quel caso, imbriani — ironicamente, come suo stile — insegue la natura multiforme del tarantismo”.
Il saggio conclusivo di Vincenzo Santoro “Il culto popolare di san Paolo attraverso evidenze documentali e iconografiche” si concentra sull’arcaico e affascinante culto di san Paolo, indagato attraverso fonti documentarie, testimonianze iconografiche e riferimenti letterari che spaziano dal folklore alla devozione ufficiale, dall’arte popolare a quella colta. L’apostolo delle genti, noto per il miracolo del serpente nell’isola di Malta, assume nel contesto pugliese e mediterraneo (con delle significative appendici nell’Italia appenninica) una funzione apotropaica e terapeutica che si intreccia strettamente con la simbologia del morso, del veleno e della guarigione. Santoro illumina la complessità di questa figura, sottolineando la molteplicità di mediazioni – figurative, liturgiche, narrative – attraverso cui il culto si è diffuso e trasformato, e mostrando come esso costituisca uno snodo fondamentale nella costruzione dell’immaginario tarantistico, ancorché variamente declinato nelle diverse comunità locali.
Chiude il volume un’ampia appendice documentaria, che raccoglie testimonianze sul pellegrinaggio dei tarantati alla cappella di Galatina dal primo Ottocento all’indagine demartiniana del 1959. Questo segmento archivistico non solo completa il quadro storico con rigore filologico, ma restituisce al lettore la voce delle vittime, dei musici, dei parenti e dei testimoni, delineando un paesaggio umano segnato dalla marginalità, dalla sofferenza e dalla ricerca di riscatto, in netto contrasto con le recenti semplificazioni turistiche e le estetizzazioni festivaliere. Santoro conclude: “Ho deciso di aggiungere un’appendice, partendo da un'esperienza personale. A Galatina, infatti, ho assistito a una delle rievocazioni storiche del tarantismo che si organizzano oggi: cortei in costume, giovani e anziani che ballano con la musica davanti alla cappella di San Paolo, come se si stesse celebrando un esorcismo coreutico-musicale, simulato in particolare da delle ragazze che si fingono tarantate. Si tratta di un vero e proprio falso storico, perché in realtà, questi riti, storicamente, avvenivano nelle case dei tarantati, non a Galatina, in quanto — secondo la tradizione — i galatinesi erano immuni dal morso della taranta, essendo protetti dallo stesso San Paolo, patrono della città insieme a San Pietro. Queste rievocazioni, a mio parere, portano inoltre a una folklorizzazione e un’estetizzazione del fenomeno, che ne tralasciano gli aspetti più estremi, dolorosi, radicali. Le manifestazioni del tarantismo a Galatina si rivelavano come una processione dolente, terribile. De Martino lo scrive chiaramente, anche se mi sto sempre più convincendo che, nonostante sia un libro cult, in pochi lo leggono davvero, o forse, se lo leggono, non lo capiscono fino in fondo. E oltre a De Martino, anche Brizio Montinaro e altri studiosi lo hanno ribadito più volte. Le fonti, dai primi dell’Ottocento fino agli anni Cinquanta, sono piene di testimonianze su questo aspetto: la sofferenza estrema, il dolore dei tarantati. Basti pensare al particolare dell’acqua del pozzo che bisognava bere per ottenere la grazia: provocava il vomito, le persone si accalcavano una sull’altra spesso vomitandosi addosso. Le scene descritte hanno qualcosa di dantesco. Ecco perché trovo discutibile trasformare quel rituale, che era un'esperienza collettiva di dolore — quasi un monumento immateriale alla sofferenza delle classi popolari salentine (e non solo) — in un’attrazione turistica, pronta per essere ripresa con lo smartphone”.
In definitiva, Tarantelle, santi e guaritori si impone come una tappa imprescindibile nella riflessione contemporanea sul tarantismo, non solo per la qualità dei contributi e la varietà degli approcci, ma soprattutto per la capacità di tenere insieme rigore scientifico e sensibilità interpretativa, attenzione al documento e apertura teorica, ancoraggio territoriale e prospettiva mediterranea. In un tempo in cui il patrimonio immateriale rischia di diventare una formula vuota, il volume rappresenta un esercizio critico di restituzione e di decostruzione, un invito a riconsiderare il tarantismo non come reliquia del passato o spettacolo folklorico, ma come dispositivo vivo e mobile, capace di interrogare le contraddizioni e le aporie della modernità stessa.
Salvatore Esposito