Marco Ongaro – La spia che ti amava (Long Digital Playing, 2024)

Dodicesimo lavoro in studio per il cantautore veronese Marco Ongaro. “La spia che ti amava” contiene dieci tracce inedite con gli arrangiamenti di Pepe Gasparini e la produzione artistica di Gandalf Boschini. Si parte con le “La spia che ti amava” (“E non sai mai dietro al suo sguardo, quanto interesse sia infine celato, quanto desiderio vero o bugiardo, quanto remoto bisogno di aiuto, dalla copertura sotto il lenzuolo filtra e s’infiltra l’anima ambigua, umori e spasimi stendono un velo, dolce armistizio ingannevole tregua”) dove chitarre elettriche e cori caratterizzano le sonorità blues, si prosegue con “Il gelsomino” (“Ti accoglieva sul cancello il gelsomino, lei stava tre piani sopra, ma ti scopriva in strada, parcheggiato come un assassino, sorrideva mentre ti squadrava, era un giunco che il vento non piegava, un airone al chiarore del mattino, indeciso nella pioggia rada”) dove la malinconia d'autore la fa da padrona. Una robusta chitarra elettrica e una batteria incalzante sostengono “S.r.d.” (“Tu non credi che il mio amore resista, io non credo che resista il tuo, una gara mai vista un testa a testa, che non penso vincerò io, una sfida al ribasso tra due libertà, contrappasso alla vita vita di società, società disgraziata a responsabilità disperata”), arpeggi delicati accarezzano “Lo sfondo “ (“E se riparti prima del tempo o ti sistemi in qualche hotel, io sono Cicerone del niente, controfigura di un vecchio me, perché la bellezza è viva e senza vita scivolano via l’ardesia il marmo il viale immenso, il giardino il caffè la Portineria”). Brandelli di funky si colgono in “Concorsi di poesia senza poeti” (“Complottavano nei portici come profeti, forti di qualche ingenua che li aveva condivisi in un post, sognando concorsi di poesia senza poeti, dove spadroneggiare grazie alla Gazzetta dello Sport e colavano consensi dalle pareti, in versi effimeri divorati dai naïf, abbaglianti come show di altri pianeti, povere rivalse scampate all’isola di If, saranno i loro desideri più concreti di essere celebrati in esclusivi galà, in concorsi di poesia senza poeti, a far parlare oggi e domani si vedrà”); il rock si fa trascinante con “Una via di fuga” (“Vuoi trovare una nuova persona che ragioni a mente fredda, che abbia una vita sana ed un’anima assai buona senza essere per forza un Buddha, ma nessuno è senza macchia, senza un Fracchia nell’armadio, c’è chi adora far l’amore, c’è chi adora far soffrire e chi vive solo per lo stadio”). “Ritratto di donna scomparsa” (“Nevrastenia e lacrime intorno alla mobilia, figlia del vano limite che al tavolo si appiglia, come una gatta morbida stiracchia il dormiveglia e tutto manca già nel soffio di conchiglia”) è un’affascinante bossa nova, mentre “Ma tu sorridi” (“C’erano fronde e passioni leggere, sotto la polvere del bene e del male ed una voce baciata dal niente, come un Vangelo in un vecchio scaffale, c’erano pietre brillanti di sole ed incantesimi di naftalina, sotto il sospiro del vento la gonna, già troppo adulta per una bambina”) è un dolce valzer cullato dal clarinetto. “Aveva un uomo” (“Il tempo poi l’ha messa in mezzo, tra l’uomo che non c’era più e quello che non c’era ancora, era il prezzo dell’attesa, la sospensione la galera, tra un uomo che un tempo fu e uno che non è ancora e lei al centro dell’impresa, dall’ultima alla prima ora, sola”) sembra un flamenco con un riff tagliente di chitarra elettrica, “Pascoli verdi” (“E nei vostri frutteti ho sgobbato di giorno, ho dormito per terra coi compagni d’intorno, ci vedrete ai confini delle vostre città, con la polvere si viene e col vento si va”) è un'interessante traduzione italiana del brano “Pastures of plenty” scritto nel 1941 da Woody Guthrie. In chiusura troviamo la struggente ballata “Quello che accadrà” (“Quello che accadrà sarà importante, stato di allerta rilassato in prova, gigante libertà di andare altrove, galassia vecchia fa buona supernova, la piazza pare uguale ma è cambiata, semafori non ce ne sono più, com’era la canzone l’ho scordata, quando non riuscivo a non guardare giù”) dedicata a Vittorio De Scalzi. Da anni Ongaro è garanzia di qualità e questo ennesimo lavoro ce lo conferma. La scrittura è sempre ispirata, originale e raffinata, trasportata da una voce calda e appassionata. È forse il disco musicalmente più spinto della sua carriera, dove l’alta canzone d’autore dialoga con il rock e con un pop sano, al netto di qualche abuso nei cori. Ongaro resta un faro in questo desolante e moderno scenario, è una sorgente di acqua pura, è un fiore raro, da coltivare. 


Marco Sonaglia

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