Quando il reggae assolve alla sua funzione sociale

Trump non molla sul muro al confine messicano, la Francia di Macron tiene in allerta la gendarmeria alla frontiera con l’Italia, Salvini con la sua solita smania di strafare chiude i porti e dichiara guerra alle organizzazioni umanitarie. Insomma, i potenti del mondo mettono al centro della loro agenda politica la questione dell’immigrazione. Ma di fronte al tira e molla tra nazioni che si amano e si odiano selettivamente, c’è chi prende il microfono per cantargliele in rima. Ci sono voluti sei mesi di lavoro, scambi e interazioni per arrivare al brano À travers les vagues che si deve alla penna collettiva di un gruppo di artisti di varie nazionalità, meticci, africani, francesi, italiani e giamaicani: Taïro, Naâman, Jahneration, Balik dei Danakil, Broussaï, il pioniere del rap africano e altermondialista Didier Awadi, Skarramucci, Solo Banton, Mellow Mood e Raphael, invitati a prendere la parola dai Dub Inc, (autori del ritmo reggae e del ritornello). Che hanno incrociato i loro versi per sensibilizzare l’opinione pubblica verso l’operato di SOS Méditerranée (la ong balzata agli onori della cronaca la scorsa estate per la faccenda dell’Aquarius bloccata al largo di Malta dal nostro governo gialloverde) e per raccogliere un po’ di fondi. Il brano è disponibile unicamente in digitale, tutti i proventi della vendita e dello streaming saranno devoluti all’organizzazione umanitaria. Ogni artista ha scelto di esprimersi nella lingua (francese, patwa giamaicano o cabila) e nello stile più consono (rapping, toasting, etc) per dare ognuno la propria lettura critica dei discorsi dei governanti grondanti la retorica di un occidente culturalmente superiore come pretesto per creare la questione razziale, distraendo così l’attenzione dalla contraddizione economica che mantiene in subalternità i proletari e i meno abbienti in ogni parte del mondo.
Ovviamente concepito al di fuori di ogni cliché commerciale, il pezzo ha una durata assolutamente non radiofonica: sette minuti e trentuno secondi che si traducono in un’aspra critica delle politiche mondialiste e del modo in cui il tema delle migrazioni viene trattato dai media che esercitano i loro atti di violenza simbolica. Fortemente voluto dalla reggae band di base a Saint-Étienne, partendo dalle esperienze vissute sulla pelle di alcuni dei propri membri, figli di immigrati di varie origini e di diversa estrazione sociale, che mai ha rinunciato nei propri testi a dare la propria visione del mondo. “Quando vedo questi migranti non posso fare a meno di pensare a mio padre - dichiara Komlan, uno dei due cantanti di origine mista franco-beninese, mentre l’altro Bouchkour è di origine algerina e avrà sicuramente esultato per il dietrofront di Abdelaziz Boutleflika - che ha vissuto l’esperienza migratoria a suo tempo, e questa cosa e come essa viene trattata dai media non può non toccarmi. Questo brano è un opuscolo di (contro)informazione..”. Un piccolo gesto di solidarietà che si distingue in questi tempi bui malati di malvagia furbizia e del più ferino individualismo, anche per la capacità di dare un respiro concreto al vecchio motto anglofono: united we stand, divided we fall! 



Grazia Rita Di Florio

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