
Se al sitar, in Occidente, si associa immediatamente il nome di Ravi Shankar, nel prossimo futuro si parlerà di Nirmala ad ogni menzione della Saraswati vīņā. Lo strumento è un liuto piriforme dal lungo manico, decorato all’estremità con l’intarsio di una testa di drago. Dotata di ventiquattro tasti, quattro corde melodiche e tre simpatiche, è centrale nella musica carnatica, tradizione del India merdionale risalente a 2000 anni fa. L’incontro con lo strumento avviene alla tenera età di sei anni a Chennai in India, sua città d’origine. La carriera solista comincia poco più tardi, ma viene accantonata dopo il matrimonio e il trasferimento in Minnesota. Nel 2006 Nirmala abbandona il mondo informatico per dedicarsi completamente allo strumento, da allora insegna a tempo pieno e passa un quarto dell’anno in tour attorno al globo. Ai concerti si affiancano numerosi premi e riconoscimenti, tra cui le Bush e McKnight Fellowship. L’educazione è centrale nella sua crescita musicale: accompagnata dall’infanzia dai più illustri guru della vīņā carnatica, Nirmala divulga l’antica tradizione attraverso l’insegnamento presso il Naadha Rasa Center of Music, di cui è fondatrice e direttrice artistica. L’artista fa parte del consiglio direttivo dell’American Composers Forum, di cui è il primo membro di origine indiana.

La sfida di riunire identità sonore così variegate non è semplice, come l’avete affrontata?
Tutti i musicisti che mi accompagnano in questo viaggio aderiscono ad una mentalità comune orientata verso improvvisazione, condivisione e sperimentazione, eseguite nel rispetto dell’integrità dei brani. Cerchiamo sempre di impegnarci in questo senso, ma lasciandoci trasportare l’uno dall’altro, e questo include il nostro fonico. Per un disco come questo, che è fortemente improvvisato, è difficile sapere come il risultato finale suonerà. Il team intero ci ha dato tanti consigli, come utilizzare il metronomo in “Sublime Journey”, scelta necessaria a cui mi ero inizialmente opposta. Il pezzo è molto complesso e ha sicuramente tratto beneficio dalla scelta. Questo era lo spirito dell’album, tutti i collaboratori avevano lo stesso obiettivo: mescolare generi e anime diverse.
Questa è una domanda molto interessante. Sono terribile con la scrittura di partiture, è qualcosa che mi sono sforzata di imparare ma ho perso di vista. Pat si occupa della trascrizione dei pezzi: se sono io a comporli li registra e si presenta alle prove con la partitura per gli altri, io ho solamente delle note strutturali e non controllo gli spartiti. Questo può portare a malintesi. Ad un concerto con annessa conferenza ci siamo resi conto che l’intera band contava, da più di due anni, il pezzo “Maithree” su quello che per me era il levare! Nessuno di noi se n’era accorto, che dimostra che diverso non significa necessariamente sbagliato, avevano creato una tessitura che supportava la voce perfettamente. Siamo tutti molto aperti ad osservazioni, spesso correggo l’intonazione per esempio, o eventuali note sbagliate. Gli altri musicisti sanno che vengo da una tradizione che ha una grammatica musicale molto dettagliata e spesso mi chiedono spiegazioni o consigli riguardo i raga o gli ornamenti.
Il pezzo d’apertura è curioso e inaspettato, da dove nasce l’idea di arrangiare una giga irlandese?

In che modo pensi Maithree stia contribuendo ad arricchire il panorama artistico?
L’arte sta perdendo il lustro che le è sempre appartenuto, lo vediamo nella distribuzione dei finanziamenti nelle scuole. Ho lavorato per anni nell’informatica, e ogni collega ha un lato artistico che coltiva in qualche modo. Similarmente, gli artisti devono avere senso di simmetria e proporzione, conoscere il proprio corpo, la geometria, la matematica e le frazioni. Stiamo perdendo questa connessione tra discipline essenziali l’una per l’altra. Credo che Maithree dia un buon esempio in questo senso, mostrando la convivenza tra arte e scienze, tra persone diverse, tra culture diverse.
Piani futuri per il progetto?
Il mio sogno è di allargare il progetto ad altri strumenti, cosa che abbiamo già fatto live con contrabbasso, chitarra e oud. Non mi dispiacerebbe creare una big band da dieci o dodici elementi, alcuni dei quali fissi ed altri ospiti a rotazione. Ho suonato come ospite in molti ensemble, così come han fatto gli altri artisti di questa formazione. “Maithree” in sanscrito significa famiglia, e vorrei allargare questo albero il più possibile. Vorrei includere poeti, attori e ballerini, la musica indiana è sempre stata una piattaforma di aggregazione per diverse forme artistiche e non. L’idea è di creare qualcosa di grande ed inclusivo da condividere con questa grande famiglia di anime sensibili.
Maithree – Maithree, the Music of Friendship (Innova Recordings, 2018)

Edoardo Marcarini
Tags:
Asia