Afro Celt Sound System – Flight (ECC Records, 2018)

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A due anni dall’ultimo disco e dalla divisione della band, Afro Celt Sound System torna con “Flight”, piccola perla racchiusa in guscio eterogeneo. La band, capitanata da Simon Emmerson, è nota alla scena world per l’estrosa mescolanza di generi, che solca spazio e tempo avvicinando musica africana, irlandese e beat elettronici. Rilasciato il 23 Novembre e poi promosso con un tour britannico (con tappa principale al Barbican Hall di Londra per il London Jazz Festival), l’ottavo album favorisce una composizione organica, canora e spesso acustica. Sebbene si sia ridotto il volume elettronico rispetto ai lavori precedenti, non se ne può ignorare l’enorme impatto sul sound del disco. L’apertura è affidata ad un cantato quasi parlato, colorato da sonorità ipnotiche e d’atmosfera. “Marbhrann Do Shir Eachann Mac'illEathainn” è tra i pochi rappresentanti irlandesi in un cd che opta più spesso per vesti africane. Lo dimostra “Sanctus”, traccia registrata con The Amani Choir, un rendimento gospel del celebre inno della tradizione liturgica cristiana. L’apertura corale si evolve presto in un botta e risposta tra gli uomini e le donne del coro, il tutto accompagnato da una prorompente stratificazione di percussioni. Anche questa sezione, tuttavia, progredisce trasformandosi in un disco-funk ricco di sintetizzatori ed effettistica, che rimane comunque ancorato all’Africa con la sezione ritmica e i fiati, che ricordano il sound di Fela Kuti. In poco più di dieci minuti di musica, il complesso sintetizza concretamente i suoi stilemi e le sue particolarità pur scegliendo due pezzi tradizionali. 
Con “Thunderhead” continua il trend elettronico ballerino: la band mantiene lo stile funk elettronico, l’accompagnamento percussivo e i layer di voci. Colpisce, al centro del pezzo, un intervento rap seguito da una melodia irlandese cantata in scat. La crescita dinamica inarrestabile porta ad un primo incontro con le highland pipes di Griogair Labhruidh, che ci aveva introdotto recitato in gaelico del primo brano. In quarta posizione troviamo quello che forse è il brano più ambizioso dell’intero lavoro. “Fissiri Wali Polka” riesce ad impacchettare kora, percussioni africane, melodie celtiche, strumenti irlandesi e beat drum and bass senza risultare forzata. Una formazione simile la si trova solo in “Step Up”, nella seconda metà del disco. Al cuore dell’album troviamo il suo blocco centrale: “The Migration Medley”. Diviso in quattro parti per un totale di 20 minuti di musica che esplorano la tematica dell’esodo con sfumature diverse, musicali e di significato. Dai toni festosi di “Flight”, quasi caraibici, passiamo a “Migration”, pezzo minore e teso nonostante l’energia. “Homecoming” torna più positivo con una chiusura parzialmente corale che si staglia su letto di percussioni prorompenti, che supportano la melodia delle pipes. “Night Crossings, pt.1” è invece un lento che abbraccia entrambe le tradizioni canore di riferimento. 
Con un potente ritorno all’elettronica e otto minuti di durata, “The Path” è un brano possente che trasuda l’energia dei club. L’impasto percussivo domina il paesaggio sonoro, con batteria e campionature che prendono il timone e navigano verso orizzonti martellanti ed oscuri. La produzione è eccellente, lasciando ad ogni tamburo il giusto spazio in questo frenetico ballo tribale. Con un’anticipazione così eclettica, la risoluzione finale risulta particolarmente delicata in “Night Crossings, pt.2”. Un pezzo prevalentemente canoro, talvolta corale, vede l’alternarsi di diversi interpreti, che raccontano storie in lingue diverse. Ospiti d’occasione sono gli Stone Flowers, gruppo musicale che supporta rifugiati e richiedenti asilo aiutandoli a superare i traumi della loro esperienza. Il brano sfuma lentamente in un fade out prima dinamico, con il progressivo scomparire degli strumenti, poi effettivo. Una chiusura soave per un viaggio intenso, come un lieto fine per un film. Il ritorno degli Afro Celt Sound System è fiero e non guarda in faccia a nessuno. Ha molto da dire e lo fa senza peli sulla lingua, assemblando ogni dichiarazione con vocaboli da lingue diverse, scelti secondo criteri estetici e coerenza espressiva. Il connubio di generi, che non può che spaventare di primo acchito facendo presagire risultati pacchiani e raffazzonati, è invece perfettamente bilanciato e delicato. Un album caldamente consigliato.


Edoardo Marcarini

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