Massimo Liberatori – Tratturo Zero (Ars Spoletium, 2018)

Comincia dalle parti di Woody Guthrie il tratturo percorso da Massimo Liberatori, cantautore e cantastorie romano di base a Spello, in provincia di Perugia. Gira a lungo, si ferma più di quanto ci si aspetti nell’America della canzone popolare, dove si conclude con Elisabeth Cotten. Attraversa parecchi scenari, tutti visibili dal percorso, accomunati dalla dimensione di transitorietà che proietta l’album e, allo stesso tempo, dalla visione vagamente arcadica e positiva che connota la produzione di Liberatori. Il titolo stesso del disco, “Tratturo zero”, può essere inteso come un’integrazione di questa visione. La quale, con un po’ più di attenzione, può essere ricondotta all’osservazione dell’attualità, spesso lontana dalla cronaca, ma anche a una trasfigurazione tutta poetica di questa, raccontata dentro una dimensione senza limiti spaziali (Stati Uniti, Inghilterra, Appennino, Umbria, Roma), da cui emerge più chiaramente il valore del nucleo azzerante che richiama il titolo: come a dire, ognuno ha diritto al suo spazio e alla sua idea di mondo, ognuno può e deve immaginare come vorrebbe che fosse, senza costrizioni né limiti. Partendo appunto da zero. La poetica di Liberatori ha dei punti di repere ben saldi. Si potrebbe dire che la sua narrativa ha in sé gli elementi naturali della poesia: un’idea, un racconto cantato che, oscillando tra il concreto e l’immateriale, tra il reale e l’immaginario, tra la storia, il mito e il presente, tratteggia il profilo di una dimensione in cui tutto sembra chiaro, connesso, coerente, oltre che possibile. Gli elementi fondamentali della sua narrazione tornano ad affacciarsi anche in questo ottimo album, dal quale emergono personaggi fuori dal tempo, linguaggi mischiati (“This land è” è un suo personale reprise del brano più simbolico del canzoniere guthrieano, così come “Sabbotaggio”, entrambe raccontate sia in inglese che in italiano), scenari persistenti, esistiti o solo immaginati (poetizzati). A fare da cornice a questa visione - nell’ambito della quale Liberatori lavora con attenzione certosina su un linguaggio quasi mistico, in cui a seconda dei casi richiama, insieme all’inglese, voci dialettali di una parte dell’Umbria e romanesco – vi è una struttura musicale raffinata e perfettamente aderente alla dimensione di cui sopra. Una struttura in cui si apprezzano gli interventi di una rappresentanza de La Società dei Musici (Gianluca Bibiani alla fisarmonica, Claudio Scarabottini alle tastiere, mandolino e whistle, Stefano Trabalza alle chitarre), ensemble spoletino di ricerca e riproposta di musiche tradizionali, il polistrumentista Maurizio Catarinelli (bouzouki, ukulele e slide guitar), Gabriele Russo (violino, piffero e ribeca), Ellade Bandini (batteria), Giulio Catarinelli (basso), John Kruth (banjo, mandolino, armonica, flauto traverso e voce), Yukio Tsuji (shkuachi) e Ji Yeong Park (haegeum). Insomma una piccola banda con un’ottima varietà di strumenti, che riescono a dare corpo a una musica piena e delicata, posata ma incisiva. Al di là dei richiami che Liberatori rivolge alle tradizioni espressive internazionali (ricordiamo, oltre alle altre già citate, “Radio Londra chiama”, ovvero “London Calling” dei Clash, e “Un treno merci per Elisabeth”, remake di “Freight Train” di Elisabeth Cotten), vi sono due musicazioni di due poesie di Trilussa e nove brani originali. Se le poesie di Trilussa spostano l’asse dell’album sul versante immaginifico (sebbene trattino evidentemente temi connessi alla realtà), i brani di Liberatori bilanciano l’andamento dell’album in modo determinante, intensificandone i tratti più intimistici e visionari. Alcuni titoli ci aiutano a comprendere la proiezione dei quindici brani in scaletta: “Altopiano plestino”, “La notte del cantastorie”, “La mirabolante istoria del brigante Cinicchia”, “Transumanza”. Una sorta di mappa espansa oltre le storie e i luoghi più conosciuti, che Liberatori liberamente ricolloca attraverso il canto. Come dice lui stesso, riportandoci a un’immagine inclusiva: una grande canzone popolare, un’unica parola transumante che risale la corrente. 


Daniele Cestellini

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