Anthony Joseph & Friends, Windrush: A Celebration, EFG London Jazz Festival, Barbican Centre, Londra 17 Novembre 2018

Dopo 70 anni dall’ormeggio della HMT Empire Windrush al porto Tilbury Dock in Essex, il Barbican Centre si veste a festa per celebrare l’impatto culturale e musicale delle culture caraibiche con “Anthony Joseph & Friends Windrush: A Celebration”. Organizzato per EFG London Jazz Festival da Anthony Joseph, l’evento ha visto alternarsi sul palco numerose star della musica calipso, reggae e jazz. La band contava dieci dei più eccelsi musicisti della scena Jazz e World, guidati dal pluripremiato sassofonista Jason Yarde, che ha arrangiato e diretto lo show dal vivo. L’apertura alle influenze caraibiche ha cambiato radicalmente il contesto socio-culturale britannico, dal linguaggio alle mode, fino all’evoluzione ed incorporazione di nuovi linguaggi musicali come lo ska e l’hip hop. La prima cantante ad unirsi alla band, che ha aperto le danze con un’introduzione strumentale, è l’icona femminista Calypso Rose, regina del genere musicale. Affronta il palco a piccoli passi accompagnata da musica energetica, sorride e saluta il pubblico con la naturalezza di chi sulla scena ci è cresciuto. 
Intona la canzone “Calypso Queen” e, beffandosi dell’età, sfoggia le sue doti di ballerina muovendo il bacino e mostrano il posteriore, portando poi l’indice alla bocca chiedendo complicità al pubblico. La platea è in visibilio, con alcuni fan che si alzano per salutarla dalle prime file. Chiude l’ultimo ritornello e si appresta a scendere, regalando il foulard e gli orecchini a delle fan, dimostrando un forte spirito comunitario. È sorprendente vedere una professionista di questo livello relazionarsi così calorosamente col suo pubblico, nonostante abbia settantotto anni di età e più di venti album alle spalle. Segue Cleveland Watkiss, virtuoso della voce Jazz di origine giamaicana. Watkiss è famoso per la facilità con cui si muove tra vocalizzi e improvvisazione. In questa interpretazione di “There’s Nothing Like This” di Dannis Brown, il cantante si diletta in uno sbalorditivo solo Scat che conferma la sua destrezza. Il brano segue fondamentalmente la struttura dell’originale, ma è arricchito da un arrangiamento più raffinato che include più strumenti e sonorità. Solo dopo venti minuti dall’inizio del concerto vediamo Anthony Joseph unirsi finalmente ai suoi Friends. 
Il brano stavolta è “Caribbean Roots” composizione originale dell’artista poliedrico. Un basso pigro accompagna la batteria che gioca con pelli e bordi, sostenendo una voce quasi recitata che decanta le radici caraibiche. A questo punto le sequenze video proiettate alle spalle della band si fanno più interessanti, accompagnando con forte coerenza emotiva sia il testo che la musica. Dopo una ballad intonata dalla cellista e corista Ayanna WItter-Johnson, il testimone passa al poeta Roy Lewis aka Brother Resistance, portavoce e fondatore del genere Rapso. Divide il palco con Joseph, contrastando il vestito elegante dell’ultimo con un abito tradizionale bianco e blu valorizzato da un bizzarro copricapo che nasconde i lunghissimi dreadlocks. A chiudere il primo set troviamo un’altra leggenda della musica Calypso, l’ormai ottantatreenne Slinger Francisco, in arte Mighty Sparrow. Con passo simile a quello di Calypso Rose raggiunge lo sgabello al centro del palco, poggia il bastone a terra e inizia a cantare sui ritmi rilassati di un calipso in Fa maggiore: “Congo Man”. 
Sparrow gorgheggia, urla, ride, gioca con il testo e con il pubblico, incitando botta e risposta con la platea che risponde, come ad ogni live che si rispetti, stonata e fuori tempo ma sicuramente entusiasta. Durante la pausa mi guardo attorno e noto che l’audience è più variegata di quanto mi aspettassi. Nelle precedenti edizioni del festival avevo notato che, quando l’artista di riferimento era rappresentante di una cultura musicale straniera, la folla tendeva ad essere più socialmente omogenea. Era questo il caso, per esempio, al concerto Jazz di Zakir Hussein, Dave Holland e Chris Potter, esibitisi nello stesso teatro per l’edizione 2017 del London Jazz Festival davanti a spettatori prevalentemente di origine indiana. Il pubblico, invece, non era solamente eticamente variegato, ma raccoglieva ascoltatori di tre diverse generazioni. Il secondo set riconferma, nella maggior parte dei casi, le aspettative positive derivate dal primo. Tutti gli artisti si ripresentano per uno o più pezzi, riaffermando la loro identità musicale attraverso una seconda o una terza canzone. Al palinsesto si unisce Gaika, rapper hip hop di Brixton, che spezza radicalmente l’andazzo musicale della serata cantando col vocoder accompagnato dalla band. 
Man mano che la serata si avvicina alla conclusione, la musica si distacca dalla tradizione importata dai migranti e prende forme più moderne, figlie dell’incontro tra queste esportazioni e stilemi europei ed americani. Il basso e la batteria marcano ritmiche soul e hip hop mentre il resto dell’organico si porta su strade sempre più improvvisatorie e jazz. La musica del secondo set è un esempio organico del Nu Jazz londinese che ruota attorno a Jazz Re:freshed. Band quali Ezra Collective, Nubya Garcia, Sons of Kemet, Moses Boyd e molti altri, reiterano paradigmi jazz filtrandoli e ripresentandoli attraverso stili più giovani. Questo nuovo jazz è rinforzato dal soul, sostenuto da ritmiche afro e ruba formule alla musica elettronica. Il vero protagonista della serata è il band leader Yason Yarde, che dimostra un impeccabile padronanza tecnica ai sax mentre dirige un organico ricco e complesso. La sua “Windrush Suite” incorpora fedelmente ogni elemento proposto fino ad ora, similmente a come la società contemporanea ha assorbito e rielaborato la cultura caraibica. Il brano è dinamico, in continua evoluzione e sempre ballabile anche quando il tempo si sposta su un improbabile 11/4 particolarmente degno di nota. Se musicalmente Yarde conquista la sala, il pezzo più toccante rimane “Precious”, cantato da Cleveland Watkiss mentre alle sue spalle vengono proiettate le vittime della police brutality britannica. La serata si colora di toni discordanti, dipingendo realisticamente una storia dolce e amara ricca di contrasti, contraddizioni e imperfezioni. Nondimeno, l’atmosfera è perlopiù gioiosa e attiva con un pubblico che lascia il teatro contento e stupito. Un progetto di questo calibro rende onore al prestigioso festival che lo ospita, confermando la sensibilità musicale e culturale della direzione dell’EFG London Jazz Festival e del Barbican Centre. Un inizio coi fiocchi che lascia sperare in una continuazione altrettanto esemplare.

Edoardo Marcarini
Foto di Emile Holba (c)

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