Gabriella Martinelli – La pancia è un cervello col buco (Autoprodotto, 2018)

Gabriella Martinelli ha lo sguardo del futuro in fondo agli occhi; e sono occhi sempre bene aperti; la voce poi, quando canta o quando ti parla davanti ad un caffè, è tonda, decisa e piena; non è del tutto chiaro però se quello che si percepisce dietro alla forza dai tratti dolci e naïf del suo mostrarsi al mondo, sia inquietudine e fragilità. Certo è che Gabriella non si nasconde dietro false timidezze: arriva sempre dritta al punto e non sorprende, perché è quanto si rivela immediato nel suo ultimo album “La pancia è un cervello col buco”; un disco autoprodotto con coraggio. La Martinelli fa parte di una nuova generazione di donne italiane, che per fortuna non hanno nulla da giustificare e spiegare; sono quello che sono e che devono essere e hanno solo voglia di raccontare i mondi fantastici, variegati e colorati che hanno attraversato e continuano a navigare. E pensano anche  che tutto questo vada fatto in modo responsabile: una bella sfida davvero. 

Te l’avranno chiesto tutti, ma fa lo stesso e cominciamo da qui; cosa mai vuol dire: la pancia è un cervello col buco?
Lo dico sempre che la pancia è il secondo cervello; è una cosa riconosciuta anche scientificamente ed è la pancia che ho seguito e assecondato in questo ultimo lavoro, a partire dal fatto che si tratta di un disco autoprodotto – che già di per sé è una follia – e che l’ho registrato in presa diretta, con l’idea di suonarlo e portarlo in giro il più possibile; soprattutto si tratta di un album che raccoglie canzoni in cui spero di riconoscermi nel tempo: non ammicca mai alla discografia contemporanea e asseconda invece quelle che sono le mie esigenze di scrittura e quindi…  la mia pancia!

E a proposito di produzione artistica, ultimamente, intervistando e parlando con un grande come Gianfranco Reverberi, il discorso è caduto proprio su questo: lui afferma che esistono ottimi talenti in Italia, ma che in passato gli artisti erano più fortunati, perché erano seguiti dalle case discografiche; c’erano soprattutto i produttori artistici. Tu sembri aver fatto una scelta che va in direzione opposta. Perché? Per indipendenza? E soprattutto pensi di continuare in questa direzione? 
Guarda, sarò molto onesta nel dirti che credo moltissimo nella figura del produttore artistico e penso che per la vita di un artista deve essere una persona speciale; il problema è che io non l’ho incontrato, non ho incontrato quello giusto: per me deve nascere una cosa potentissima, come una storia d’amore, che fa incontrare mondi diversi. E siccome avevo l’esigenza di far uscire questo lavoro per liberarmene, visto che in me già stava accadendo altro e già cominciavo a scrivere altre cose, alla fine ho deciso di partorirlo da sola. Ma non pensarla come una scelta di presunzione o di indipendenza assoluta: ho solo assecondato un’esigenza di quel momento. 

La pancia… immagino sia stato però anche un modo per metterti alla prova.
Lo è stato eccome. E ho imparato tantissime cose, anche – per esempio - tutta la parte burocratica che mi ha sorpreso per la complessità: una roba pazzesca. Non immaginavo che dietro un disco ci fosse tutto quel lavoro lì. Oltre alla produzione artistica serve pure quella esecutiva! Comunque sì, mi sono messa alla prova con gli arrangiamenti, che comunque hanno visto la collaborazione dei musicisti che hanno partecipato al progetto. D’altronde non poteva che essere così, perché registrando in presa diretta, io ho portato in sala delle idee che in qualche modo si sono evolute in altre cose ancora, grazie al loro apporto. 
Ho quindi imparato a costruire cose sul momento, con altri musicisti. Con alcuni di loro ho continuato questo percorso, perché suonano con me e insieme abbiamo imparato a coordinare le energie.

Bene, potremmo dire che – vista l’ottima riuscita di questo lavoro – ti sei goduta questa grande libertà di decidere da te ed è per alcuni versi, quando si tratta di artisti del tuo calibro, un bene, dall’altra questa totale libertà fa pubblicare gente che non sa nemmeno accordare la chitarra e a volte in mezzo a tutta questa produzione è difficile orientarsi. Comunque tu nel primo disco hai fatto una scelta più tradizionale, in questo sei andata da sola. Nel prossimo che direzione prenderai? 
Beh, non ti nascondo che la mia esigenza del momento è riuscire ad arrivare a più gente possibile, ma sempre in modo onesto:  continuando a dire le cose così come le sento; sto buttando giù una serie di idee anche diversissime da quelle fatte fino ad ora… insomma il passo successivo è provare ad abbracciare un pubblico più ampio e dire cose anche diverse da quelle che ho raccontato fino ad ora. 

Le storie che racconti e racconterai da dove nascono?
Nascono dai miei viaggi, dalla mia famiglia, dalle mie radici; in questo disco in modo particolare, visto che ho fatto tutto da me, ho scelto il mondo che conosco di più: il mondo delle donne. 

Pure questa è stata una scelta no?
Questa è stata fortemente una scelta: ho ritrovato nei miei appunti tante storie di donne che ho deciso di mettere insieme e altre le ho cercate;  avevo voglia di lanciare dei messaggi positivi  e coraggiosi e ho deciso di farlo così perché secondo me noi donne lo siamo: la donna adesso è coraggiosa, ha degli ideali e vuole portarli avanti a tutti i costi.

Comincia ad esserci una bella realtà di musica italiana scritta da donne, realtà a cui tu appartieni e partecipi in prima persona. Però in molti casi ancora mi sembra che nella canzone “al femminile” ci sia conformismo, come se davvero – parafrasando Tenco (ma lui lo diceva con ironia) – l’unico interesse di una donna sia trovare il grande amore, magari che somigli a quel famoso grande attore…
A me piace pensare ad un’altra tipologia di donna: quella che non si piange addosso, quella consapevole del malessere che c’è intorno a lei. Siamo esseri sottili, ma la mia è una figura di donna che cerca sempre la via d’uscita e la soluzione alle cose. È risoluta e coraggiosa, come ti dicevo prima, perché noi donne lo siamo davvero. 

Siamo delle combattenti, ma non è mai facile, perché poi le donne debbono sempre fare il doppio della fatica. Anche nel lavoro, ancora spesso tutto passa, in maniera più o meno esplicita, attraverso il linguaggio sessuale e sessista. E questo si riverbera anche sulla produzione musicale al femminile.
Sì, esatto. E infatti non ti nascondo che i miei ascolti sono soprattutto maschili e le colleghe che apprezzo di più non fanno musica italiana. Qui mi piace Cristina Donà, ad esempio. Ho anche fatto delle esperienze belle con Ilaria Porceddu e Erica Mou, provando a mettere insieme i nostri tre mondi molto diversi. Penso che lo faremo ancora. Anche perché credo che le donne dovrebbero fare proprio questo: incastrarsi tra loro per tirare fuori insieme un po’ di follia. Che tra l’altro, guarda caso, forse è proprio quella che un po’ manca nella musica femminile. 

Tu sei solare: non ti sei ritirata in un eremo a scrivere, ma sei andata in giro, hai fatto tante cose e in questo disco hai messo a confronto tanti mondi. Per esempio è molto interessante la tua storia di artista di strada… 
Sì, perché la cosa che mi piace fare di più è raccontare storie di altri oppure inventarne di mio, raccogliendo quello che pesco in giro; quindi suonare in strada mi ha aiutato tantissimo; farlo significa sapere sempre da dove si parte ma mai dove si potrebbe finire e soprattutto con chi si potrebbe finire. Tutto questo è davvero affascinante. 

Quindi intendi continuare a farlo?
Sì, quando posso, parto e lo faccio.

Hai mai avuto problemi reali e gravi mentre lo facevi?
Beh! Non ci crederai, ma forse la situazione più imbarazzante che ho vissuto è stata proprio a Roma, ai Fori Imperiali. Mi hanno cacciato in malo modo mentre c’erano tante persone ad ascoltare. Invece, per farti un esempio, una volta in Francia, mentre suonavo in una zona in cui non si sarebbe potuto fare, la Guardia ha comunque aspettato che terminassi il pezzo e poi si è avvicinata, invitandomi a spostarmi e chiedendolo per favore.  Purtroppo in Italia non abbiamo la cultura dell’arte di strada. Viene associata all’accattonaggio, al nomadismo, mentre addirittura in Francia gli artisti di strada ricevono uno stipendio mensile perché vengono considerati un valore aggiunto per la cultura del luogo.  E così si fa musica ad ogni angolo ed è davvero bello. 

E tutto questo ha molto influenzato la scrittura della tua musica?
Certo. E non a caso questo è un disco crossover che raccoglie pezzi diversi : è una roba che mi diverte. Diversamente mi annoierei a morte; e poi io non credo alla definizione di genere: è una roba che non ho mai sopportato nella vita e così anche nella musica. “Che genere fai?” Scrivo musica e poi ogni brano è fedele al suo mondo. La matrice della Canzone d’Autore comunque resta perché sono brani scritti da me. 

Tu che definizione daresti alla Canzone d’Autore? 
È una espressione pesante e me ne rendo conto: per me è la canzone scritta dall’autore, che lo fa assumendosi delle responsabilità nei confronti di chi ascolta. Questa è una cosa fondamentale. Mi capita di ascoltare cose che portano messaggi terribili e secondo me chi fa musica, chi scrive libri, chi fa cultura, deve invece ricordarsi sempre questo: noi lanciamo dei messaggi e quindi possiamo in qualche modo muovere  cose; dobbiamo perciò fare attenzione; una scrittura d’autore è anche uno sguardo attento e responsabile.  

Ok, andiamo avanti allora e quindi… mi dicevi che stai già andando avanti con nuovi progetti. Me ne vuoi parlare?
Per ora no. E poi comunque sono ancora in giro per questo disco.

Va bene. Però almeno sappiamo che questo nuovo lavoro avrà un produttore artistico! Come te lo immagini? 
Deve essere una persona dalla grandissima sensibilità, ma non so farne un identikit. È come un innamoramento: non sai mai di chi potresti veramente innamorarti; ma ripeto che credo tantissimo nella figura del produttore; tutti i grandi ne hanno sempre avuto uno accanto. Deve essere quella persona che riesce a farti vedere quello che tu inevitabilmente non riesci a vedere: in definitiva ognuno di noi da solo può arrivare solo fino a un certo punto. E poi la musica non si fa da soli. 

E quindi parlami dei tuoi musicisti. 
I musicisti di questo disco non sono quelli del primo, anche perché ho fatto un lavoro di ricerca di suono molto diverso; sono però, come ti dicevo, i musicisti con cui suono in tour. La formazione con cui giro di più è in trio: il chitarrista Andrea Jannicola, basso percussioni e cori Paolo Mazziotti e  poi io mi accompagno con l’ukubass.

Allora, visto che del futuro non possiamo parlare, parliamo del presente e del live. Come ti trovi? Hai difficoltà?
Beh innanzitutto c’è disabitudine all’ascolto; la gente è anche meno curiosa: sembra ci sia una sorta di apatia e poco desiderio di conoscere il nuovo; la gente ama la roba facile; però devo anche dire che non si può fare di tutta l’erba un fascio: ci sono anche quelli che fanno piccola ricerca; per esempio io il mio piccolo pubblico me lo sono creato e me lo sto creando negli anni, attraverso la gavetta. Mi è capitato di trovarmi in situazioni in cui c’era un pubblico particolarmente disattento, ma io la prendo un po’ come fosse una sfida; vedo il pubblico come il quarto o il quinto elemento della band e cerco di creare un rapporto anche dialogando; il pubblico va coinvolto, va anche portato un po’ sul palco. Non si può avere la presunzione di arrivare a tutti i costi!

Secondo te come si può arrivare a un pubblico più ampio? Una volta c’erano i giornali, ora le persone sembrano non sapere nemmeno più dove bisogna andare a comprarli. E anche se c’è tanta roba online, anche di grande qualità, non sembra cambiare molto. Per non parlare dei giovanissimi che si  muovono attraverso altri canali – tutti digitali - trascurando tutto il resto; un mondo da cui noi sembriamo esclusi. Uno della tua generazione riesce ancora ad arrivare a loro?
GB Bisogna sfruttare i mezzi social. Sono necessari, perché adesso la comunicazione è lì ed è molto diretta. Sto imparando il meccanismo: lo sto ancora studiando però.  

E posti per suonare ci sono?
GB Sì, ci sono, ma bisogna conoscerli, insistere, proporre…  io riesco a suonare anche perché rompo le scatole al mondo; è una catena: si crea un circuito; sono contenta perché col Premio “L’artista che non c’era” ho vinto un bando con il Nuovo Imaie che mi assicura un tour di otto date:  loro ti affidano a un booking e questa è una cosa positiva perché poi fai tutto tramite loro e tutto è in regola: una cosa seria!
Come la musica di Gabriella Martinelli



Gabriella Martinelli – La pancia è un cervello col buco (Autoprodotto, 2018)
Simone de Beauvoir avrebbe adorato le donne di Gabriella Martinelli, soprattutto le più giovani, così somiglianti a quella ragazza che era stata lei, piccola “rampolla” di famiglia borghese, sempre con le braccia conserte sul davanzale e la testa oltre la finestra: curiosa, sorridente e solo vagamente preoccupata di non sapere ancora spiegare, a quelli dentro casa, che il suo futuro sarebbe stato molto lontano da lì (“Memorie di una ragazza perbene”). Non sono molto d’accordo quindi con l’idea che il complesso mondo femminile racchiuso nell’album “La pancia è un cervello col buco” si possa ricondurre a tante piccole signorine Bovary, come la stessa presentazione del disco induce a pensare. Sì, forse qualcuna in qualche momento. Anche perché tutte le donne e tutti gli uomini soffrono di “bovarysmo”, per dirla con Daniel Pennac: di quella necessità impellente ed epidermica di leggerezza, di fumo, di fuffa, di paillettes lustrini e cocktail su una bella terrazza, di letture semplici o musica da bere che diano una morbida pettinata al cuore; in poche parole di quella rassicurazione che solo certi momenti di assoluta superficialità sanno regalare. Ma per il resto le donne della Martinelli, così letterarie a volte, così cinematografiche, così pittoriche, somigliano molto di più appunto alla giovane Simone, o al massimo a qualche agguerrita protagonista di un romanzo di Jane Austen. Ce n’è una in particolare, la Anne di Persuasione, che avrebbe potuto serenamente scrivere “Esseri sottili”, brano tra i più belli, emozionanti e veri contenuto in un disco che si presenta come un piccolo gioiello della recente discografia italiana. Chiacchierando con la Martinelli è uscito più volte il tema della produzione artistica. Perché questo è un album fatto tutto in assoluta autonomia: produzione (anche esecutiva), arrangiamenti eccetera. Un sound mai uguale a se stesso e davvero minimale; l’unico filo conduttore della musica contenuta in questo disco è l’essere totalmente a disposizione di una voce straordinaria, che sarebbe stata profondamente amata da Kurt Weill. Gabriella ha lavorato in modo che fossero proprio le sue doti vocali a risaltare sul tutto, che fossero le parole e le storie raccontate ad essere le protagoniste, come del resto ci si aspetta sempre da un album di canzoni d’Autore. E viene quindi spontaneo chiedersi – non è tanto un appunto all’album quanto davvero una domanda -  come e se un occhio esterno, una sensibilità diversa, avrebbero saputo esaltare ancor di più il bello di questo disco. Parliamo di produzione artistica ovviamente: certi film o certi libri sono straordinari anche perché sono passati sotto un attento editing che ne ha saputo esaltare i tratti essenziali. Però ha fatto bene Gabriella a mettersi alla prova, a chiamare per nome le sue donne, a scegliere quelli di Erica e Casimira tra i tanti racconti del suo taccuino… perché così ce la immaginiamo la Martinelli:  come un personaggio di un cartone animato, coi suoi bei capelli e la sua grazia innata, la sua voce potente, mentre va in giro con lo zaino in spalla, l’ukulele e un blocco da disegno - in una Europa da fumetto e letteratura, da Erasmus e gioventù dipinta - a raccogliere storie e a mischiarle con le sue. Un disco crossover non a caso quindi. Un miscuglio di sensazioni, rimandi urbani e contadini, suoni antichi e tocchi leggeri di violino. Ci manca solo la narrazione e la prosa, ma quelle ce le aspettiamo su un palco, dopo tanta e tanta gavetta, ancora di più di quella già fatta. Con la voglia ed il coraggio delle proprie emozioni e dei propri sentimenti. Ci si interroga spesso su cosa sia la Canzone d’Autore e se ha ancora senso parlarne oggi. Se non si tratti di un termine desueto. Basterebbe parlare con chi ha inventato il termine (da non confondere con quello di “cantautore”) - mutuandolo dal linguaggio cinematografico – per scoprire che questo termine non ha alcun legame con i generi musicali e ne ha molti invece con l’intenzione: è l’arte che ha necessità di trovare voce ed espressione, e in quanto arte è sempre diversa da quella a fianco, da quella di un minuto prima. Unica, irripetibile anche per l’artista che la fa. E che nasce solo per una ragione: per la necessità interiore di chi la realizza di esprimere se stesso e la propria visione del mondo (in ogni senso in cui possiamo provare a pensarla). Il disco di Gabriella Martinelli è un esempio limpido e chiaro di questa idea. E speriamo che non la abbandoni mai. E che continui a raccontare senza timidezze, giocando con i suoni e con le possibilità musicali che sono a sua disposizione e che magari ancora nemmeno conosce…


Elisabetta Malantrucco

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