Fanfara Station – Tebourba (Agualoca, 2018)

La ‘misticanza’ sonora generata da un tunisino, un americano e un DJ producer italiano. Intervista al polistrumentista e cantante Marzouk Mejiri. 

Benvenuti all’arab-balkan-jazz electro-dance party, cerimoniato da Fanfara Station, il trio che unisce ottoni, fiati tunisini, percussioni arabe ed elettronica, testimoniando estetiche migratorie contemporanee e i flussi ciclici di suoni e di culture musicali, dal Medio Oriente al Maghreb, dall’Europa dell’Est alle Americhe. Marzouk Mejri, polistrumentista, compositore, cantante e flautista del nord-est tunisino, è arrivato all’ombra del Vesuvio oltre venti anni fa. Affermato musicista, negli anni lo abbiamo ascoltato e visto accanto a Peppe Barra, 99 Posse, Daniele Sepe ed altri ancora. Marzouk è stato tra i protagonisti del docu-film “Napolislam” di Ernesto Pagano e sulla vita sua e della sua famiglia (la compagna Elvira e i due figli Alya e Jamal) è imperniata la pellicola “Vita di Marzouk”.  Il girovago Charles Ferris, invece, arriva da San Francisco via Kentucky e Canada, dove è nato. Trombettista con studi etnomusicologici alle spalle, predilige l’improvvisazione e immersione totale nella musica della diaspora afroamericana e delle fanfare balcaniche, rom e macedoni soprattutto. Giunto a Napoli per studiare la tradizione orale dell’entroterra partenopeo, Ferris finisce per restarvici, mettendo su famiglia e collaborando o alimentando svariati progetti (tra cui La Mescla, ‘E zezi, Flo, Sineterra, Ajar, Marcello Giannini, Maxmaber Orkestar, Crossroads Imprinting). Dopo tanti anni di collaborazione  sulla scena partenopea sempre in tensione tra radicamento e ibridazione, i due polistrumentisti hanno trovato il common ground in un trio affiancati da Marco Dalmasso aka Ghiaccioli e Branzini, DJ producer fiorentino ma torinese d’origine, specialista nella fusione dell’elettronica con blues, jazz e folk. 
Compone anche colonne sonore per spot televisivi, fashion show e campagne pubblicitarie; dal Global Kan Kan al Camillocromo Beat Band e a Hugolini sono tanti i progetti che lo vedono in prima linea con le sue manipolazioni elettroniche. Dopo il primo EP eponimo del 2017, Fanfara Station pubblica sul mercato internazionale, per l’etichetta napoletana Agualoca Records, il primo lavoro di lunga durata, intitolato “Tebourba”, come la città natale di Marzouk, che abbiamo intercettato in procinto di partire per la Tunisia, mettendo a fuoco con lui quello che succede nella fusione sonora di Fanfara Station e nel mettere in gioco se stesso e la sua famiglia nel film “Vita di Marzouk” del regista Ernesto Pagano.

Come nasce questo sodalizio tra te, Charles  Ferris e Marco Dalmasso, aka Giaccioli e Branzini?
Il progetto è nato in questi anni di crisi: si lavorava pochissimo con il grande Marzouk Ensemble, così io e Charles abbiamo iniziato a suonare in due, usando loop station. Poi, con l’intervento di Ghiaccioli e Branzini, abbiamo dato al progetto un sound fresco e moderno. 

Che ruolo ha avuto la tua famiglia nell’avvicinarti alla musica?
La mia famiglia mi ha tramandato la musica. Nella memoria ci sono i racconti di mia madre e del nonno, i suoi canti, il clarinetto dello zio materno, i canti e i ritmi giornalieri di mio padre, le feste di famiglia e gli incontri con i parenti. Tutto ciò ha caricato il mio cervello di ritmi e di melodie. 

Nel tuo passato c’è anche il suono della banda di tuo padre? Di che tipo di formazione si trattava? I quali occasioni sociali suonavano e che tipo di repertori eseguivano? 
La banda di mio padre era l’esempio della disciplina, dell’ordine, della professionalità e del virtuosismo. Era musica fatta di belli arrangiamenti, creati da una sezione di clarinetti, sax, trombe. tromboni, basso tuba e ritmica. Era la banda  che accompagnava Bourguiba, il leader della resistenza contro il colonialismo francese. Suonavano nelle feste nazionali, matrimoni e cerimonie.  Suonavano marce, canti patriottici e malouf. 

Oltre al malouf, che è il repertorio di derivazione arabo-andalusa, un altro tuo interesse di ricerca è rivolto allo stambeli, la musica rituale di derivazione afro-tunisina. In passato hai portato avanti anche un concerto familiare ispirato a quel repertorio. Ce ne parli?
Lo stambeli è una musica che mi tocca l'anima. Non so spiegare il perché. Forse il mio nome mi ha portato alla ricerca di queste origini o delle mie origini. Mio padre ha suonato con il mio bisnonno Marzouk la  notte prima della mia nascita e così mi ha dato il suo nome. In Tunisia abbiamo il santo dei neri tunisini che è Sidi Marzouk. Forse, uno dei miei antenati era nero. 

Come si è sviluppato il lavoro creativo in coppia tra due anime musicali dal percorso così differente come te e Charles Ferris. Quale il ruolo del DJ-producer Ghiaccioli e Branzini?
Sono undici anni che conosco Ferris, Fin dall’inizio, Charles si è interessato a quello che faccio: forse voleva capire o avvicinarsi alla musica del nonno che era di religione musulmana. 
Con Marco, invece, abbiamo provato un bel po’ prima di trovare l’equilibrio giusto tra l’elettronica e i nostri strumenti. 

Nel brano che apre il disco, “Dammne”, l’io narrante si rivolge a un Presidente. C’è un rimando a Vian, ma anche riferimenti all’attualità tragicamente ossimorica delle bombe intelligenti. Di cosa si tratta?  
“Dammne” è un  brano ispirato dalla poesia di Boris Vian “Le Déserteur”. È dedicato al dramma dei bambini che muoiono sotto le bombe ogni giorno, eppure i potenti giustificano queste azioni  dicendo che hanno colpito con bombe intelligenti, che uccidono solo i cattivi. Nel ritornello cantano i miei due figli, Alya e Jamal, e gridano: «Sangue nostro o mondo nostro». 

In “As I am” canti anche in inglese. È un testo scarno che parla di aneliti di libertà, di limiti da superare, di canto vitale, di un canto che non finisce…
È nato nella cantina di Charles. Mi e venuto un desiderio di cantare in inglese. Ci siamo messi a sperimentare, io dicevo in italiano e Charles traduceva, insegnandomi la pronuncia. È un canto per la libertà in tutte le sue forme, per la vita, per la pace interiore. 

“Gazela” è uno dei temi più riusciti per la sua stratificazione sonora: qui citate anche un noto canto partenopeo… 
“Gazela è ispirata alla canzone popolare napoletana "Cicerenella”. Si rivolge alle ragazze che ci mettono anni alla ricerca del compagno adatto, parla della loro pretenziosità. Bisogna accontentarsi di quello che ci porta il nostro destino:  guardare e apprezzare il bicchiere mezzo pieno.

“Mariage” canta l’amore. In che modo? 
“Mariage” è una composizione sull’importanza dell’amore e del matrimonio stesso nella vita di ogni essere umano. Oggi purtroppo le persone si sposano per poter poi separarsi subito dopo la nascita del primo figlio. Invece, bisogna credere nei sentimenti per superare ogni difficoltà.

Un altro brano di punta del disco è “Talila”. Ce ne vuoi parlare?
Un canto popolare tunisino, un canto di festa, di danza e allegria. Lo cantavano Raoul Journo e Eschik el Afrit, due cantautori ebrei tunisini. 

Come ci è finita “Canzone Arrabbiata” nel repertorio del disco? 
“Canzone arrabbiata” me l’ha proposta Marco, vedendomi spesso arrabbiato. Mi ha detto questa è per te! 

Che succede nei vostri concerti dal vivo? Che ruolo ha l’improvvisazione?
Fortunatamente nei nostri concerti si balla, il sound è potente e fa muovere il pubblico. L’improvvisazione è fondamentale per la creazione, la creatività e la fantasia, fortifica il legame tra noi e il pubblico. 

Sei protagonista del docu-film “Vita di Marzouk”, girato sempre da Ernesto Pagano, che aveva diretto Napolislam, in cui interpretavi il ruolo di un taxista. Com’è stato “recitare” te stesso e mettere in mostra la tua vita? 
Nel docu-film, non ho recitato ma ho continuato a vivere normalmente, a tal punto che spesso mi dimenticavo della presenza della telecamera. Il regista ha selezionato le parti che più gli interessavano. 

Il film si svolge tra Napoli e Tebourba, dove a un certo punto senti la necessità di condurre i due tuoi figli, Alya e Jamal. “Tebourba” è anche il titolo dell’album. Tra l’altro è un luogo nel quale ritorni spesso, non solo per gli affetti, per promuovere anche altre iniziative culturali. Cosa rappresenta oggi Tebourba per Marzouk?
Tebourba o Thuburbo minus (il nome romano)  è la mia città natale, dove ho vissuto fini a 28 anni. Nel 1994 me ne sono andato pieno di rabbia, non volevo più subire e vedere le ingiustizie sociali della mala politica. Vi ritorno per fare attività culturali, cerco di valorizzare il grano antico, la musica e la tradizione. Tebourba era una delle città più ricche e importante all'epoca romana. Anfiteatro, granai, oliveti e tanto altro a solo 30 km dal aeroporto nazionale. Mi sembra ingiusto non valorizzare tutte queste potenzialità che potrebbero dare una dignità a questa città. 
Tebourba è da salvaguardare! 



Fanfara Station – Tebourba (Agualoca, 2018)
#CONSIGLIATOBLOGFOOLK

Marzouk Mejiri (voce, darbouka, tar, tabla, skascka, castagnette, mizwud, zocra, nay) e Charles Ferris (tromba e trombone), Ghiaccioli & Branzini (programming, sintetizzatori) si sono associati nel nome del groove incessante: un trio che diventa un’orchestra generando un precipitato di flussi sonori, con liriche che riprendono poesie classiche arabe e poeti contemporanei tunisini o, ancora, portano la firma del musicista maghrebino. Nelle maglie delle nove composizioni convivono squarci jazz e funky, loop, breakbeat e ritmiche dance, propulsioni balcaniche e stilemi dello stambeli, musica popular e d’arte tunisina, fino a inserti della tradizione popolare partenopea. Folgorante apertura dalla spinta inarrestabile con “Dammne”, un brano il cui testo declamato richiama il Boris Vian di “Le Déserteur”, ma è calato nel contesto contemporaneo e mette il dito sulla piaga delle ingerenze umanitarie neocolonialiste e delle ossimoriche bombe intelligenti. È il biglietto da visita del trio, i cui linguaggi sonori scivolano l’uno nell’altro, compenetrandosi alla grande. Sulla partitura ritmica elettronica si dilata “As I am”, caratterizzata da liriche bilingui (inglese e arabo); il portato della lunga collaborazione tra Marzouk e Charles; è nato nelle sessioni di prove in cui ha preso forma il “ponte sonoro” denominato Fanfara Station, una costruzione in coppia del testo e delle procedure improvvisative che caratterizzano il brano. Densa e avvolgente nella sua stratificazione sonora è la splendida “Sus”, una composizione che porta la firma di Marzouk, vero e proprio manifesto programmatico del sodalizio, così come “Gazela”, dove gli ottoni di una fanfara balcanica incrociano una banda municipale del sud, alimentati dai quarti di toni arabi e melopea napoletana (dentro ci finisce la celebre “Cicirenella”). A sorpresa, entra nel circolo danzante anche “Canzone Arrabbiata” (scritta da Nino Rota e Lina Wertmüller per “Film d’amore e d’anarchia”), una canzone che Ghiaccioli e Branzini ha portato in dono al gruppo perché ideale per il temperamento di Marzouk, che la interpreta in italiano. Qui la coppia tunisino-americana si muove dietro la visione elettronica ideata dal DJ fiorentino, in una traiettoria sonora in cui spiccano il sordinato e il flessuoso flauto con «in mente Ellington e un mood italiano vintage di impronta swing» (così mi racconta Ferris). La successiva “Talila” è un canto propiziatorio di festa, ispirato alla musica popolare del sud tunisino: un altro episodio superlativo di “Tebourba” per la sua tessitura corposa che fonde melodia medio-orientale, ritmi afro-tunisini, tammurriata e vibes blues. Oltre, “Mariage” elogia l’amore sognante ma nella consapevolezza che amare significa dedizione per l’altro. Parte, poi, “Rahil”, dove la tromba ricama sul fraseggio del flauto nay e sull’incessante sostegno percussivo e si aprono vortici balcanici e sequenze improvvisative, mentre la voce di Marzouk commenta le difficoltà di chi ha trovato tutto il coraggio per lasciare la sua terra di origine, ma finisce per restare ghettizzato nell’emarginazione urbana, rinunciando a cercare quel cambiamento che era stato il motore della partenza. Fanfara Station saluta con il torrido trattamento dub-electro-dance di “Sus/Ghiaccioli e Branzini re-edit”. 
Per i tempi che corrono, quelli emessi dalla Fanfara Station sono segnali di salutari attraversamenti e connessioni tra culture, luoghi e suoni. Play it loud!


Ciro De Rosa

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