Artisti Vari – I’m Not Here To Hunt Rabbits (Piranha/The Vital Record, 2018)

Indipendente dal 1966, affrancato dal protettorato britannico, il Botswana è una repubblica che gode di duratura stabilità politica. Per favorire il turismo i vari governi hanno realizzato un’efficace tutela ambientale con un’ampia presenza di riserve naturali. Il Paese, racchiuso tra lo Zimbabwe, il Sudafrica e la Namibia, offre scenari naturalistici spettacolari: pensiamo al Delta dell’Okavango, il fiume che scorrendo dagli altipiani dell’Angola, s’insabbia nel deserto del Kalahari (in cui vivono i cacciatori-raccoglitori San, conosciuti anche con l’eteronimo di Boscimani), che occupa tre quarti del territorio. Il Botswana è un territorio semi-arido, con una bassa densità di popolazione. Caratterizzato in prevalenza da un’economia di sussistenza e considerato uno dei Paesi più poveri del continente fino all’indipendenza, ha visto cambiare la sua condizione dopo la scoperta di giacimenti di diamanti. La capitale Gaborone, costruita in pochi anni dopo la decolonizzazione, sede politica ed economica del Paese, si confronta con una fortissima urbanizzazione causata dalla migrazione dai villaggi rurali. L’economia del Botswana è stata in forte crescita negli anni, con l’allevamento e il turismo come altre voci significative della bilancia commerciale oltre alle risorse minerarie. Se da un lato il Botswana è visto come modello di pace, democrazia e prosperità in Africa, i problemi non mancano, poiché si stima che un quinto della popolazione adulta sia positiva al virus HIV. L’inglese è la lingua ufficiale; tra le altre lingue parlate (almeno venti), il setswana (chiamato in breve tswana), un idioma bantu, è la lingua più parlata nel Paese. Nelle mappe delle musiche del mondo, il Botswana è stata una realtà messa poco a fuoco. La Stern’s Guide to Contemporary African Music volume 2, pubblicata da Ronnie Graham nel 1992, gli dedicava appena una paginetta con pochi riferimenti discografici.
Eppure, già nei primi anni Ottanta del XX secolo, la Smithsonian Folkways aveva pubblicato materiali raccolti sul campo dall’etnomusicologa Elizabeth N. Wood. Accanto alle espressioni di tradizione orale delle diverse popolazioni e a forme di musica folk, la musica del Botswana si presenta con una vivace scena popular di hip hop e rock che si è affermata sin dagli anni Novanta grazie a personaggi come DJ Sid e David D-Ski Molosiwa. Dalle township sud-africane è arrivato il kwaito, dall’Africa centrale kwaito-kwasa. Ora è la volta del formidabile “I’m Not Here to Hunt Rabbits”, disco prodotto dalla collaborazione tra la newyorkese Vital Records e la tedesca Piranha, che porta alla ribalta gli stili chitarristici del Paese dell’Africa meridionale. Tutto ha origine da un video su youtube linkato a David Aglow dell’etichetta Vital, il quale, vinta la tentazione a cestinare una mail che sembrava spam, resta folgorato, come altri milioni di visualizzatori, da una figura androgina di musicista che utilizza una tecnica chitarristica inusitata. Nel vedere le immagini e ascoltare la musica, Aglow è proiettato in un mondo di strumentisti di cui non aveva cognizione. Non essendo un novello Ry Cooder, Aglow raggiunge l’user che ha caricato il video, entrando in contatto con Johannes Vollebregt, un olandese residente da oltre trent’anni in Botswana, arrivato con un’organizzazione di volontari ed alla fine restato in Africa. Da chitarrista e amante della musica ha messo su un gruppo rock, ma soprattutto si è posto l’obiettivo di aiutare i musicisti locali a farsi conoscere anche al di fuori del Paese, soprattutto nel vicino Sud Africa. 
Con questo obiettivo in mente, ha concepito l’idea di dare loro il giusto riconoscimento internazionale con una registrazione professionale realizzata da un’etichetta occidentale. Così Aglow e Vollebregt hanno messo su il progetto discografico, che prende il titolo da un verso di una canzone registrando a Gabarone. Ma come suonano questi chitarristi del Botswana? Per prima cosa, delle sei corde standard di una chitarra sono suonate solo tre corde acute (di solito SOL, MI e RE) e una corda di basso. Quest’ultima, idealmente, è un SOL del diametro medium di 0.45, adatto per l’appunto a una chitarra basso. Se non è disponibile una corda più spessa di una normale corda acuta si ricorre, come accade altrove nei Sud del mondo, a un cavo di freno. L’accordatura, ottenuta a orecchio, non è mai standard: sono usate solo accordature aperte. Trattandosi di solisti, i musicisti adattano la gamma di toni al loro timbro vocale. Un altro aspetto che balza subito agli occhi (e alle orecchie) è la tecnica della mano sinistra, che è posta davanti al manico e non dietro: le quattro dita si muovono sui tasti partendo dalla parte superiore della chitarra, mentre con il pollice rimane dietro il manico, diventando utile per la corda basso. Per quanto riguarda la tecnica della mano destra, ogni suonatore ha un suo modo legato alle esigenze disposte dal tema. Però, in generale, il pollice gestisce il basso e l’indice, spesso dotato di plettri o di dispositivi artigianali a forma di anello, tocca le altre corde. Il basso è slappato o si producono altri effetti virtuosistici ed esibizionistici con colpi di gomito e del pugno. Nell’uso delle corde acute si notano analogie con sonorità ed esiti del blues rurale. 
Sul piano melodico sono riscontrabili le influenze delle vicine musiche urbane del Sud Africa. Non ci sono spiegazioni definitive ed esaustive su come si sia sviluppato questo originale stile chitarristico, tutti gli strumentisti parlano di imitazione di tecniche apprese da giovani osservando musicisti più maturi, ma è possibile che, come è accaduto altrove in passato, la chitarra occidentale sia stata declinata in base ad esigenze sonore locali. Pubblicato in vinile (con nove bonus tracks), in CD (undici composizioni) e sulle piattaforme digitali, i brani dell’antologia, contenente un booklet di trentasei pagine di presentazione, testi e fotografie, ci conducono in un insolito tragitto sonoro, comprendente Ronald “Ronnie” Moipolai e Molefe “Western” Lekgetho, due musicisti itineranti, che si esibiscono per strada o nei bar informali chiamati chabin (o shabeen), o come Annafiki “Anna” Ditau, conosciuta a livello nazionale per le apparizioni alla TV, ma che continua a suonare per strada davanti al supermarket del terminal bus della capitale. Poi c’è Oteng Piet, insegnante che suona il segaba, strumento tradizionale, sorta di violino monocorde. Piet interpreta “Lonely Days”, ispirata alle sue esperienze musicali sudafricane, e “Mmanti”, una nota ninna-nanna tradizionale. Altri musicisti, tutti con interessanti vissuti di cui si può leggere nel booklet, sono Sibongile Kgaila, Solly Sebotso, Batlaadira Radipitse e Motlogelwa “Babsi” Barolong, i cui testi coprono commenti di vita quotidiana e alle problematiche sociali. “I’m Not Here To Hunt Rabbits” è un ascolto inaudito. 


Ciro De Rosa

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