Oumou Sangaré – Mogoya (Nø Format!, 2017)

Che di strada ne avrebbe fatta lo si era capito subito quando negli anni Novanta esordi, a ventun anni, sbancando in patria con l’audiocassetta “Moussolou” (“Donne”), in cui sul sostrato sonoro neo-tradizionale si ergeva una vocalità tagliente e spregiudicata che portava alla ribalta l’allora misconosciuta cultura del Wassolou, regione del sud-ovest maliano, affrontando apertamente questioni scottanti come i matrimoni combinati, la poligamia e il desiderio femminile. Con il passare degli anni, Oumou, nata a Bamako da una famiglia peul originaria proprio del territorio meridionale ricoperto di foreste, è diventata una delle dive della musica dell’Africa, dall’autorevole caratura pubblica, portavoce dell’emancipazione femminile. Oumou Sangaré si è sempre presa i suoi tempi per incidere, il suo silenzio discografico è durato otto anni (“Seya” è del 2009), tra difficoltà locali nel gestire la propria musica e i problemi legati al diritto d’autore (la pirateria imperversa alla grande ostacolando la pubblicazione di un disco) e ai suoi svariati business da imprenditrice a Bamako. Il cambio di etichetta l’ha portata dalla World Circuit di Nick Gold alla parigina Nø Format!, label non nuova alla produzioni di stelle africane. In “Mogoya” Oumou è in condizione formidabile, con una line-up solida, dal sound compatto e asciutto, che equilibra elementi acustici tradizionali e fattura pop-rock. L’album è stato realizzato sotto le cure produttive di Laurent Bizot, del bassista svedese Andreas Unge (parte del disco è stato registrato a Stoccolma, parte a Parigi) ma soprattutto del collettivo parigino “A.L.B.E.R.T.”(Vincent Taurelle, Ludovic Bruni et Vincent Taeger). La sostanza chitarristica è fornita dal giovane maliano Guimba Kouyaté, poi ci sono il kamele ngoni imbracciato da Benogo Diakité (l’arpa-liuto che si può definire una versione contemporanea del donso n'goni, lo strumento cerimoniale della confraternita dei cacciatori del Wassoulou), il basso, le tastiere e l’elettronica misurata, i cori, le percussioni (karignan e calabash) e l’occasionale drumming indissolubile dello storico esponente dell’Afro-beat Toni Allen. «Abbiamo voluto esaltare il potere schietto e puro della voce e delle canzoni di Oumou, evitando la patinata levigatezza di tante produzioni africane contemporanee», ha dichiarato Ludovic Bruni del collettivo A.L.B.E.R.T.. Con un bell’artwork del giovane artista congolese J.P. Mika, “Mogoya” comprende nove brani; il titolo si traduce con “La gente oggi” o “Le relazioni umane oggi”. Oumou si rivolge ancora alle donne esortandole nelle battaglie d’emancipazione, ma centra anche temi sociali che, drammaticamente, si stanno imponendo come il suicidio e le tribolazioni politiche e sociali del suo Mali. Corde antiche, chitarra elettrica, voci e tastiere dialogano alla perfezione nell’iniziale “Bena Bena”, esaltando quella commistione di groove Wassoulou e estetica occidentale. La successiva “ Yere Faga”, cantata in bambara, è uno dei brani di punta dell’album: Oumou si esprime sul crescente dramma dei suicidi nel Paese sub-sahariano, esortando alla resilienza, a «non cedere alla sofferenza», a non su un tessuto sonoro di riff taglienti di chitarre distorte, sorrette dalla propulsione del basso e l’inesorabile batteria di Allen. Sul suo ruolo pubblico di madrina del festival maliano Wassolou-Ballé, in un’intervista a Songlines dice: «Il nostro ruolo di artisti è di essere accanto alla popolazione, al suo fianco nei momenti più turbolenti». “Fadjamou” è un altro grande numero per ritmica, invece “Mali Niale” ha una tessitura acustica di matrice tradizionale, che Sangaré usa per rivolgersi alla diaspora maliana, invitandola a ritornare per costruire il futuro del Paese. L’interplay tra chitarra elettrica e kameli n'goni su un tappeto di synth e percussioni (battito di mani ed elettronica) rende irresistibile “Kamelemba”, un brano che mette in guardia le ragazze e le esorta ad affrancarsi dalle maternità precoci. Tutti sul dance floor per “Djoukourou”, che dentro la matrice afro-pop ci mette l’elogio delle relazioni familiari e dell’amicizia, mentre un avvolgente drive funk domina “Kounkoun”. Un’altra composizione in stile neo-tradizionale, che unisce biografia e commento sociale, è “Minata Waraba”, che vuol dire “Aminata la leonessa”: si tratta di un omaggio a sua madre, la cantante Aminata Diakite, che portandola con sé nei suoi interventi canori rituali (i soumous di matrimoni e battesimi), l’ha avviata sin dall’infanzia alla carriera di cantante, ma soprattutto Aminata è anche modello di ineguagliabile forza femminile e di vita: abbandonata dal marito, con Oumou ancora piccolina e altri cinque figli da crescere, non ha mai piegato la schiena. Infine, la fisionomia electro-acustica fluttuante della title-track chiude questo trionfante ritorno dalla star maliana. 


Ciro De Rosa

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