Gigi Biolcati – Da Spunda (Visage/Materiali Sonori, 2016)

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Il nome è di quelli che contano: Gigi Biolcati, cinquantuno anni, è il percussionista di Banditaliana, del nuovo “Bella Ciao” e di Youlook (con Luisa Cottifogli e Aldo Mella). Dalle balere al jazz, dalla musica sinfonica al meglio del folk revival piemontese, ricerca ed esperienze con le percussioni afro nel suo bagaglio strumentale da musicista multiforme, batterista pentito, oggi affermato percussionista, che sa imprimere nitida e vivace energia ritmica. Da una ventina d’anni incrocia la sua strada con un ampio range musicale: trad, jazz e pop, collaborando, tra gli altri, con Trio Alboran e Cristiano De André; in ambito folk ha messo la sua arte ritmica nell’allestimento de “Il viaggio di Sigerico” e nel progetto del supergruppo piemontese-occitano-catalano, Pau i treva; ha suonato con Jean Blanchard, Paul James e Scarp. L’artista vercellese concedendosi la prima uscita da solista, firma “Da Spunda”, precipitato delle esperienze accumulate, cantato in italiano e in dialetto santhiatese. Per il percussionista è come un guardarsi allo specchio; un one-man-band (voce, cori, percussioni, body percussion, kalimba, sintetizzatori, piano rhodes, chitarre, basso) che sgombra il campo da cliché folk facendo tutto da solo, – a parte qualche amichevole ospitata e le sovra-incisioni – compone, suona e canta, mescolando la sua variegata cultura musicale per produrre un disco che è insieme lirismo e fisicità. Gigi Biolcati ci porta dentro “Da Spunda”.

Come si arriva a un disco come “Da Spunda”?
Sono tanti anni che scrivo canzoni, ma non ho avuto mai il tempo o il coraggio di pubblicare un album a mio nome. L’anno scorso questo sogno nel cassetto è diventata un’esigenza per mostrarmi per quello che sono: one-man-band mi sembrava la scelta più onesta. 

Al folk sei approdato dopo i trascorsi in balera, nel pop-rock e nel jazz…
Sì, la mia prima esperienza nel folk è stata la collaborazione con Maurizio Martinotti che, oltre ad essere un carissimo amico è stato il trampolino per tutte le mie esperienze successive. Tramite la sua collaborazione ho conosciuto la maggior parte dei musicisti con cui oggi collaboro.  

“Da Spunda”, ossia ‘di sponda’ è un titolo che racchiude molti significati… 
La ‘spunda’ è un limite, una barriera, una protezione. Giocare di sponda è il modo per arrivare all’obiettivo scartando l’ostacolo cercando nuove strategie. Vedere gli ostacoli come un’occasione per crescere. Così come nel gioco del biliardo, fare gioco di sponda significa sfruttare l’effetto di deviazione o respinta prodotto da un urto, il mio lavoro è il tentativo di usare le difficoltà della vita trasformandole in opportunità per migliorarsi e rinnovarsi.

Che strumenti hai usato?
Una specie di dulcimer percosso con una bacchetta del ristorante cinese, una cassetta di legno suonata a piedi nudi, che ho battezzato ‘fast-foot’, kalimba, sintetizzatori, piano elettrico, batteria, percussioni, chitarra, basso, body percussion, chincaglierie e  soprattutto voce. Alcuni brani sono registrati con una filosofia “live”, altri con sovra-incisioni. Per la realizzazione dell’album ho invitato anche alcuni ospiti: Loredana Guarneri, che suona il violoncello in “L’amur”, Piergiorgio Miotto, trombino in “Musica”, Roberto Amadè, responsabile di un cameo vocale in “Piede, piede, mano”, in cui Isabel e Xavier fanno i cori.

Non è per niente un disco solo ritmico, ma contiene canzoni dalle ispirazioni molto diverse…
La mia vita, le difficoltà che si incontrano durante il cammino, gli affetti, l’amore, la musica. Parlo di paure, speranza, soluzioni, rapporti affettivi e ho voluto inserire tra i brani una specie di gioco di piedi, mani e gambe nato da una esperienza didattica di body percussion con una classe di bambini della prima elementare e sviluppata nei workshop e negli incontri con i gruppi-Alzheimer.
Scrivendo le musiche e soprattutto i testi della maggior parte dei brani, ho scoperto aspetti e sfumature della mia personalità che, a mano a mano, sono diventati più evidenti, più forti, più insopportabili ma che alla fine si sono combinati e riappacificati.

Ci sono dei modelli canori ai quali ti sei ispirato?
Probabilmente modelli ce ne sono, ma ho cercato veramente di evitarli. Ho cercato di imparare tutto quello che potevo dai suggerimenti ricevuti, diretti o meno. Parlando dei protagonisti del nuovo “Bella Ciao”, Lucilla Galeazzi è una che mentre chiacchiera e ti racconta una storia, già ti suggerisce tantissime cose: non mi ha mai fatto una lezione vera, ma in realtà me ne ha fatte tante. Di buoni consigli ne ho ricevuti da Ginevra Di Marco e da Elena Ledda. Invece, Maurizio Geri di Banditaliana è quello che mi ha detto di meno, ma mi ha dato di più: lui non sale mai in cattedra, ma ha una profondità nel suo silenzio che, a volte, spiega molto di più. In “Da Spunda”, ho cantato come la canzone sembrava che volesse che fosse la voce. Mi sono emozionato a cantare, quindi vuol dire che ero nel giusto… Era ciò che in quel momento mi veniva congeniale.

C’è una canzone del disco che più di altre lo rappresenta?
Credo che ogni canzone rappresenti gli argomenti che ho citato. Cambiano le dosi, ma il cocktail è sempre quello. Le atmosfere delle canzoni abbracciano tutte le esperienze musicali dei miei quasi quarant’anni di attività e i testi, tutti in dialetto santhiatese, sono per la maggior parte autobiografici. Però, forse, proprio “Da spunda” è il fulcro del messaggio: perché indugi? Perché te la meni? Comincia a cambiare tu se vuoi che qualcosa cambi!

“Giobi di Capusin” è un celebre tradizionale del vercellese. Perché lo hai scelto; come lo hai trattato?
Un tradizionale vercellese incredibilmente autobiografico… e preferirei non spingermi oltre all’argomento. L’ambientazione afro? Anch’essa ha le sue legittime ragioni legate allo stesso motivo autobiografico. Insomma! Passiamo alla prossima domanda! 

Prima parlavi di Maurizio Martinotti con cui hai suonato nei Tendachënt, poi hai fatto parte del gruppo regionale La Vijà, ma qual è stato il tuo rapporto originario con la musica tradizionale piemontese? 
Sono piemontese da parte di mamma e vivo in Piemonte dalla nascita. La possibilità di conoscere e suonare la musica della mia regione mi offre la possibilità di consolidare le mie radici nella tradizione per spingermi verso nuove evoluzioni senza perdere l’orientamento. 

Cosa ti ha dato l’incontro con il pop?
Inizialmente, il pop è stato il mio obiettivo: avevo l’ispirazione di diventare un session man, come lo era il mio amico Pier Michelatti, che suonava con De André. Quando sono arrivato a frequentare quell’ambiente, ho capito che non era quello che volevo, e ho voluto cambiare direzione. Il pop ti dà una disciplina: devi fare il minimo indispensabile, ma in misura tale da non essere così scontato; è un linguaggio che sembra banale, ma è sottile; ci sono tate sfumature, che cogli solo se sei un addetto ai lavori.

Ti propongo un commento su tre nomi eccellenti con cui hai collaborato: Paul James, Lucilla Galeazzi e ancora qualche parola su Maurizio Martinotti, un musicista e operatore culturale centrale nel panorama della musica trad italiana. 
Sono tre grandi artisti, tre grandi amici e ognuno di loro mi ha insegnato qualcosa di speciale. Paul è un fratello maggiore. Lo chiamo “Capitano” perché spesso mi coinvolge e mi guida in nuove avventure musicali. Ti trasmette una grande e solida energia positiva. Lucilla è una fuori classe per bravura e temperamento. È vera! 
È una grande artista e – come ho detto prima – è anche una maestra eccezionale. Maurizio è una persona generosa, dotata di un grande senso dell’umorismo e senso melodico. Ha scritto brani tra i miei preferiti in assoluto. “Tasso Barbasso” e “Sestrina per Stefano” ne sono due esempi. Facendo un confronto, Riccardo Tesi è uno che mi ha reso più consapevole di quello che potevo fare. Lui ascolta tantissimo, ma l’ultima decisione la prende lui, dicendo: «Allora facciamo così». Invece, Maurizio Martinotti mi ha sempre lasciato carta bianca, anche se alla fine capivo che non era ancora soddisfatto. Però, mi lasciava provare. Alla fine, mi diceva: “Adesso sì”. Mi ha fatto fare tutti gli errori possibili per arrivare a cose più funzionali. È una persona molto sensibile.

Quanto è importante il lavoro con Banditaliana per la genesi di questo lavoro? 
L’incontro con Riccardo, Maurizio e Claudio è stato fondamentale per la mia crescita artistica.  Considero Riccardo Tesi una sorta di Miles Davis del folk. Sa tirare fuori il meglio di te stesso e pur dandoti indicazioni molto precise che possono essere visti come paletti, in realtà si dimostrano un punto di partenza per stimolare al massimo la creatività. È di Riccardo l’idea di arrangiare voce e body percussion “La mia mama veul ch’i fila” nel repertorio del nuovo “Bella Ciao”. Quando me la propose, rimasi per un paio di giorni titubante! Lui no, era sicuro che avrebbe funzionato, e devo ammettere che aveva ragione. Maurizio Geri – come dicevo – non è un chiacchierone, ma se mentre stiamo suonando mi sorride, vuol dire che sto facendo la ‘cosa giusta’. Inoltre, fare le seconde voci a Maurizio è una grande opportunità per migliorare la mia vocalità. Claudio Carboni è un elemento fondamentale nel gioco di squadra. Ferrato su svariati argomenti Claudio è anche, assieme a Riccardo, il mio produttore discografico e mi sta insegnando molto su quali sono i diritti e soprattutto i doveri della categoria ‘musicisti’.

Da batterista a percussionista. Come si è evoluta la tua vita nel ritmo?
Nasco come batterista e via via ho eliminato i pezzi standard sostituendoli con percussioni etniche, ma anche inventandomi nuove percussioni. Ogni oggetto ha un suono unico. Trovare i miei suoni mi fa sentire unico. Già con Tendachënt avevo aggiunto alla batteria un djembe e avevo intonato i tom su un accordo di SOL maggiore, che mi permetteva di accompagnare in modo più melodico. Sono alcuni anni che ho sostituito la classica cassa con due ‘cassetti di legno’: una specie di cajon per piedi che, suonato con una tecnica tra tip-tap, flamenco e la tecnica del Québec, mi permette di costruire linee ritmiche articolate, da combinare altre poliritmie eseguibili con le mani. Mi piace studiare e conoscere il più possibile i ritmi di tutto il mondo e poi mi piace dimenticarmeli e suonare quello che si è sedimentato.

Batteria e musica folk italiana, una combinazione che non ha trovato sempre soluzioni felici, anzi. Come stanno le cose dal tuo punto di vista?
Sì, non è facile utilizzare batteria nella musica folk. Il rischio di essere banali, scontati e di appesantire è elevato e la possibilità di trovare soluzioni geniali è molto bassa. Conoscere le figurazioni delle percussioni  tradizionali e  anche i passi delle danze  può aiutare. Personalmente, la prima cosa che cerco di fare è quella di imparare la melodia e di capire quali sono gli accenti principali. La mia sensazione è che molte band gradiscono la solidità della batteria ma senza rinunciare ai colori e alla leggerezza delle percussioni. Molti batteristi hanno integrato percussioni nei loro set e molti percussionisti usano cassa, rullante e hi-hat.  Bisogna anche tener presenti le timbriche dell’organico per non fare inutili sovrapposizioni. Per esempio se suoni con una ghironda, la sua trompette e l’hi-hat possono andate in conflitto. A meno che non sia voluto, in questo caso è meglio usare timbri lontani da quelle frequenze. Credo che questo sia un periodo interessante, che forgerà ottimi musicisti. La cosa più importante è avere sempre il massimo rispetto per la musica che si sta suonando.

Per un musicista molto attivo come te, ci sarà spazio per “Da Spunda” live? 
Spero di sì. Ho già presentato un piccolo assaggio di Gigi Biolcati one-man-band al Quarrata folk festival e ho già in programma qualche altro live a fine estate. Sto preparando un tour autunno-inverno.



Gigi Biolcati – Da Spunda (Visage/Materiali Sonori, 2016)
La via la mostra “Al Santè”,‘il sentiero’, una canzone che mette insieme le risaie del vercellese e la Louisiana. Il riff iniziale ha un andamento blues su una struttura che si sviluppa in chiave pop, senza voler essere pretenzioso e con un lato un po’ ironico. Dice Biolcati: «Guardando le nostre risaie, quando sono allagate e ricordando i canti delle mondine, penso che anche noi abbiamo un piccolo blues autoctono. Il blues non è una cosa geografica, ma è un sentimento». “Da Spunda” è un disco molto personale, dal tratto autobiografico, che racconta luoghi e relazioni, propone spezzoni di memoria, abbracciando una varietà di timbri, suoni e forme. Partendo da un dialogo afferrato in un mercato, Biolcati produce una trama ritmica, in cui riaffiora il tala delle tabla (“Gossip Immobiliare”). Non ci aspetteremmo di ascoltare “Fiorin Fiorello” – firmata Mascheroni e Mendes, anno 1939 –, memoria dei tempi della banda municipale di Santhià: eppure nella manipolazione che ne fa Gigi, nel programma ci sta proprio bene. Invece, “Gina” è una toccante canzone che tesse il filo della memoria materna. Quanto a “Serenada”, è una canzone d’amore per la sua bella, dalla figurazione mai banale. Sorprendente l’architettura afro del tradizionale vercellese “Giobi di Capusin”, un celebre canto di risaia che racconta di problematiche matrimoniali. Composizione che parla di amore, passioni, vocazioni, del cercare di superare i conflitti, “Musica” inizia con un omaggio a Pino Daniele («a mi am pias al blus / E quand an ‘ven am’ pias cantè» è l’attacco in  versione santhiatese cantato da Gigi), ha un piglio rock con squarci aperti dal trombino (Piergiorgio Miotto), sequenze rap e un finale che cita una sestrina di Maurizio Martinotti. Ci si lascia, poi, accarezzare dall’iterazione rarefatta di “Quiete”. Ecco la title-track “Da Spunda” (il brano è all’origine di “L’arca e la paura” di Banditaliana, che è una sorta di rivisitazione collettiva, dal profilo più melodico, del modello composto in precedenza da Biolcati e messo ora su questo disco), una melodia «tecno-sciamanica», che deve molto all’incontro di Gigi con l’uomo-tamburo Alfio Antico a casa di Tesi. Dall’esperienza didattica con bimbi della scuola primaria e da un workshop di animazione con gruppi di malati Alzheimer si è sviluppato il semplice gioco di kalimba e body percussion che caratterizza “Piede, Piede, Mano”, complice la voce di Roberto Amadè. Per finire, c’è “L’amur”, di nuovo il canto in vernacolo (peccato l’album non contenga i testi dialettali con le traduzioni), un commiato ottimista, dove ancora si riaffaccia la memoria avita, riscaldato dal tepore del violoncello di Loredana Guarneri. A dirla tutta, andando fino in fondo, trovate anche una ghost-track molto ritmica e personale (che è una ‘riflessione’ recitata in olandese). Dolcezza e fisicità, riflessività ed energia per un disco che mette insieme dirette linee melodiche, pulsazioni ritmiche e insolite trovate timbriche: un plauso.


Ciro De Rosa

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