Saverio Pepe – Canto male il jazz (Autoprodotto, 2015)

Che sia l’ascolto a giudicare un disco è un dato indiscutibile. Eppure, anche il titolo di un album può comunicare qualcosa al primo impatto. “Canto male il jazz”, titolo dell’opera prima di Saverio Pepe, dice già molto del suo creatore e della sua stessa genesi. Ironia, ma soprattutto autoironia, impegno sociale unito però, inscindibilmente, alla capacità di restare leggero, questo è il materano Saverio Pepe, vigile del fuoco per mestiere, cantautore ed entertainer per passione (e studi accademici). Ecco allora che il titolo anticipa la musica, sgombra il campo da approcci sbagliati e aspettative inesatte, “Canto male il jazz” non è un disco di musica jazz in senso convenzionale, piuttosto un progetto di cantautorato e intrattenimento a base di musica jazz. D’altronde già con la prima traccia “Un sogno” ogni dubbio è fugato. L’attacco, lo stile, versi come «con le tonde signorine incrociavo le manine» e soprattutto la chiusa finale da sbruffone «fatto fuori il mio rivale la nottata…niente male!!!» ricordano apertamente il Fred Buscaglione di “Eri piccola” (1959), mentre alcuni passaggi e il sussurro finale «star eyes» richiamano l’omonimo brano (1951) di Charlie Parker. L’album è un’altalena continua fra ritmi e suggestioni. A generarla è la combinazione fra i testi di Pepe, il suo eloquio agile e sfrontato, e le musiche di Valter Sivilotti. Decisivo è l’apporto di un manipolo di musicisti che rappresentano il presente e futuro della scena jazz nostrana: Daniele Scannapieco (sassofoni tenore e soprano), Alfonso Deidda (pianoforte, flauto, sassofono contralto), Aldo Vigorito (contrabbasso), Giovanni Scasciamacchia (batteria), Guido Di Leone (chitarra), Antonio Ippolito (bandoneòn) e Marco Tamburini (tromba e flicorno), quest’ultimo purtroppo deceduto lo scorso maggio. Spiccano brani dal forte lirismo testuale come “Venosa”, non a caso descrizione appassionata della città di Orazio, e la romantica “Dimmi, oh cuore mio”, entrambe espressione di una raffinatezza melodica e strumentale che mette in risalto la schiera di musicisti coinvolti nel progetto. Impressionante “La vita è un paragone” dove con quella naturale attitudine a raccontare il mondo con riflessioni semiserie e mai banali, fa tornare alla mente il miglior Giorgio Gaber. Non mancano momenti d’incertezza, come ad esempio “Figlio del pensiero semplice” o “Signori e maggiordomi” dove la parola sembra correre troppo - forse nella foga di narrare fatti e persone senza rinunciare alla battuta e all’ammiccamento - finendo per creare una frizione con la ritmica strumentale. Una critica che sarà sicuramente accettata da chi, con saggezza e ironia, canta: «due possibilità hai di essere il primo: gareggiare da solo o batterti con tutti quelli che io stimo», con l’obiettivo di diventare «un paio di calzini tra tanti di mutande» (“La vita è un paragone”). 


Guido De Rosa
Nuova Vecchia