Sam Lee - Ground of its own (The Nest Collective Records, 2012)/The fade in time (The Nest Collective Records, 2015)

Sam Lee è un cantante di Londra che da qualche anno a questa parte si dedica a tempo pieno alla riproposta di alcuni repertori popolari. La sua storia – quella parte della sua storia che lo ha portato a comporre dischi di brani tradizionali – non è molto conosciuta qui da noi, anche se qualche notizia che lo riguarda si può trovare su alcuni media italiani. Vale comunque la pena ripercorrerla. Perché le produzioni di questo giovane interprete (classe 1980), appassionato di folk, di Romany Gypsy e Irish traveller communities, hanno attratto l’interesse di molti soggetti che operano nel settore della promozione della cultura (uno fra tutti il Mercury Prize) e – cosa che a noi interessa ancora di più – sono fino adesso convogliate in due dischi interessanti, molto piacevoli e assemblati con brani tradizionali elaborati con uno stile semplice, ordinato e sicuramente personale. “Ground of its own”, il suo disco d’esordio, può essere considerato il manifesto della sua musica, proposta attraverso non solo una selezione di brani tradizionali e di temi riconducibili a repertori e gruppi sociali determinati, ma soprattutto attraverso una ricerca sulle musiche, la timbrica e gli strumenti: jews harp, shruti box, violoncello, violino, japanese koto, ukulele, tromba, corno, tabla. È uscito nel 2012 riscuotendo un ottimo successo di critica, che lo ha portato a una nomination per il Mercury Prize come Best album of the year e a vincere il fRoots Critic Poll Award nella categoria Best album. È un album profondo e molto personale, che Lee dedica a Stanley Robertson, folk singer e storyteller con cui è entrato in contatto nel 2008 e grazie al quale ha conosciuto un ampio repertorio di ballad e folk song (repertorio che a sua volta Robertson aveva appreso da sua zia Jeannie, gipsy folk singer documentata da Hamish Henderson e Alan Lomax tra gli anni Cinquanta e Settanta). 
La seconda opera di Sam Lee è uscita in questi giorni. Si intitola “The fade in time” e accanto al nome dell’autore compare “and friends”, a sottolineare un lavoro d’insieme, un progetto collettivo nel quale il gruppo di collaboratori ha il compito di caratterizzare musicalmente (seguendo una prospettiva che non ha niente a che vedere con la filologia) i repertori proposti (anche qui gli strumenti indicano un suono e un’atmosfera precisi: ukulele, violino, violoncello, contrabbasso, jew’s harp, banjo, piano, tastiere, willow flute, fiddle, percussioni). D’altronde il progetto di Lee è segnalato passo passo nel corposo booklet che accompagna il disco. Nel quale, in calce alle trascrizioni dei testi dei brani è riportato un insieme di riferimenti dettagliati, con informazioni sulla storia dei brani, sulla loro provenienza, sul loro percorso, sul modo in cui sono stati raccolti, sui significati che assumono nei contesti in cui sono stati prodotti o nelle occasioni in cui venivano eseguiti. Prendiamo ad esempio “The moon shone on my bed last night”, uno dei più profondi della scaletta. Qui Sam Lee prova – nel riflesso di quelle dei suoi maestri/informatori – a racchiudere la sua storia. Una storia che aderisce perfettamente a un progetto non solo artistico ma, come abbiamo implicitamente anticipato parlando dei riferimenti e delle fonti di Lee, politico e culturale. Si tratta di un canto cupo, sorretto da un incedere sincopato di percussioni, di arpeggi e fraseggi variabili di ukulele, stretto dentro un bordone stridente e graffiante di violoncello. L’ultima canzone che Jeannie Robertson ha cantato a suo nipote Stanleey e che questi ha cantato a Sam, prima di morire nel 2009. Una fine e un inizio. Che Lee rappresenta attraverso la preminenza della sua voce, prolungando ogni parola con una modulazione di intonazione che allude al lamento: unico elemento di ordine dentro una struttura musicale fosca, caotica, greve. 


Daniele Cestellini
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