Migala - World ’n’ Folk Music (Paolo & Roberto Pavan Records, 2014)

Migala è un progetto musicale caratterizzato da un lavoro di “fusione” e da scelte stilistiche che mirano a “rappresentare” in chiave world alcuni elementi del patrimonio musicale di tradizione orale. Il gruppo - di base a Roma - ha appena pubblicato il primo disco omonimo, non mancando di appuntare in copertina la frase “world’n’folk”, che è una dichiarazione di stile e di intenti, oltre che il marcatore di una musica popolare e, in egual misura, contemporanea. “Popolare” (devo subito dire) nel senso più ampio del termine, perché i dieci brani che compongono il disco (ai quali si aggiungono due bonus track interessanti sia sul piano esecutivo che stilistico: “Carmen de focu” e “Antidotum tarantulae - tarantella 1600”) attraversano uno spettro musicale molto ampio: dalla pizzica alla tammurriata, dalle atmosfere legate a un vago jazzismo acustico ai richiami alle strutture narrative delle ballate tradizionali, dai ritmi espansi (world) afro-mediterranei e balcanici alle citazioni del repertorio classico e di quello popolare irlandese. Su tutto questo aleggia una scrittura personale, definita nella confluenza dei molti animatori del progetto e dei vari strumenti, sui quali primeggia senza dubbio la sezione dei cordofoni: chitarre, oud, bouzuki, saz baglama. Sulla base di quanto detto e a proposito di quei due elementi di cui sopra (“fusione” e “rappresentazione”), l’approccio di questi musicisti (Davide Robredo, Emilio Quaglieri, Emanuele Lituri, Mario Peperoni, Pasqualino Ubaldini) può essere ricondotto a due categorie di uso comune ben presenti agli antropologi, ma che probabilmente assumono in musica qualche ulteriore sfumatura. In questo quadro, la “fusione” si lega al processo di “interpretazione”, che nell’ambito delle musiche popolari si addensa attraverso richiami (più o meno indiretti) alle interpretazioni che gli studiosi danno, o hanno dato in passato, delle produzioni espressive di tradizione orale e delle loro derivazioni commerciali e internazionaliste. Come si può leggere, infatti, nel booklet del disco, in una nota a margine del brano “Antidotum tarantulae, “l’Antidotum, riportato nei suoi scritti dall’erudito gesuita seicentesco Athanasius Kircher, uno dei primi studiosi ad interessarsi del fenomeno del tarantismo, è descritto come una delle melodie atte alla cura del morso della tarantola”. Il concetto di “rappresentazione”, invece, è quello, altrettanto incoerente, formato dalla confluenza di due stadi, che sono, allo stesso tempo, anche due azioni: il “contrasto” e la “de-contestualizzazione”. Quest’ultimo mi sembra particolarmente interessante, perché definisce non solo la distanza dei “produttori” (dei rappresentatori in questione) dalla matrice che li ispira, ma perché misura anche il grado di coerenza con le informazioni che da quella matrice provengono (pizziche eseguite con fisarmonica, basso elettrico, chitarra e bouzuki: vedi il brano “Pizzingara”). Esulando per un momento da questo caso specifico, possiamo dire che dietro le relazioni interpretative che i musicisti instaurano con i patrimoni musicali orali, prende forma un repertorio nuovo e a tratti originale, che rimane pressoché indefinibile nella misura in cui si perde nel magma delle attribuzioni, delle terminologie, delle critiche, dei resoconti. Un repertorio senz’altro molto condiviso - soprattutto nell’approccio e nella metodologia attraverso la quale si selezionano e riassemblano i dati basilari - tra i musicisti. E che, io credo, si stia trasformando in una utile chiave di lettura delle dinamiche che interessano molte produzioni musicali di ispirazione popolare (sostanzialmente i musicisti si sentono liberi, nonostante i tanti e ridondanti tentativi di spiegare gli intenti, gli obbiettivi, di rendere pubblico il processo creativo e citare le fonti, come liberi sono sempre stati e soprattutto negli ultimi cinquanta o sessant’anni). D'altronde ciò che contraddistingue le discografie world da quelle di altri generi più definiti e (anche) più tradizionali nella società contemporanea (ormai non più soltanto) occidentale, è innanzitutto la caratteristica intrinseca della indeterminatezza (vale a dire che può esserci tutto dentro un disco di world music: non c’è un elemento caratteristico, anche simbolicamente rappresentativo, ad esclusione, certo, della mescolanza. Ma questa non ha regole, non è normalizzabile. Appunto è indeterminata) e la volontà (che si manifesta in gradi ovviamente differenti a seconda dei casi) di rappresentare un linguaggio, aderendo però soltanto in parte alla sua grammatica. Mi chiedo se non sia questa, in sostanza, la via per sciogliere il nodo stretto attorno ai quesiti che nascono da questo genere musicale: non si tratta di definire il grado di sovrapposizioni, ma piuttosto di misurare la percezione che i musicisti hanno dei patrimoni musicali con cui si confrontano e che decidono di interpretare. Migala può rappresentare un buon esempio di riflessione in questo senso, nella misura in cui gli elementi tradizionali delle nostre regioni (ad esempio delle musiche del Salento, della Puglia o della Campania) sono trattati alla stregua di altri elementi musicali (ad esempio il jazz manuche o alcune musiche dell’est o del nord Europa), e nella misura in cui sono gli stessi musicisti che non solo presentano, ma “analizzano” i pezzi che propongono, attraverso un sistema di note che accompagna la trascrizione di ogni brano. “Pizzingara”, un brano ritmato e ostinato, viene presentato nel booklet attraverso una nota articolata, nella quale trova posto il riferimento storico e il confronto con altri generi musicali (addirittura con quello classico), la dimensione contemporanea della commistione musicale e la creatività degli autori, elaborate in una riflessione di raccordo senza sbavature, che potrebbe somigliare a un manifesto della world music: “partendo da una citazione classica (l’incipit dello Zigeunerweisen di De Sarasate) la prima parte è intrisa della musica dell’Est Europa, soprattutto della tradizione zigana. La seconda parte è una pizzica, cantata questa volta non in salentino come d’abitudine, ma nel dialetto di Andria. Nel finale i cambi di ritmo si fanno più serrati: un passaggio dal sapore raggae e un po' folk-prog, poi un accenno di pizzica per finire in maniera circolare di nuovo con la musica balcanica”. 


Daniele Cestellini
Nuova Vecchia