Du Bartàs - Tant Que Vira… (Sirventés, 2013)

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Il combo della Lengadòc è da diversi anni in attività, con già tre produzioni all’attivo, espressione di cultura occitana meticcia, dove l’intreccio polifonico (non certo di derivazione tradizionale, ma che esiste appena oltre i confini occitani, nel Béarn) diventa commento alle disarmonie del presente (“parlar del monde en parlant del paìs”). In occitano "bartas" significa cespuglio, a simboleggiare le molteplici vie sonore che confluiscono nella musica del gruppo, ma nella memoria - chissà - c'è anche quel Guillaume Dubartas, poeta occitano del XVI secolo, e un occhio di riguardo è anche per Louis Barthas, militante socialista, scrittore e combattente testimone delle atrocità della prima guerra mondiale. Nato per iniziativa di Laurent Cavalié, musicista, autore, cantante e occitanista, nonché collaboratore del notevole quintetto femminile La Mal Coiffée, il trio d’origine dedito all’opera di ricerca e riappropriazione della lingua locale, soprattutto dei villaggi del Minervois, ha realizzato due CD (“Turbo Balèti” nel 2007, “Fraternitat” nel 2009). Col passare degli anni i Du Bartàs diventano un quintetto che integra canto polivocale, potenza percussiva e cordofoni mediorientali, con uno sguardo sonoro che si apre verso al-bahr al-mutawassit (la superficie d’acqua che si trova nel mezzo, come gli arabi chiamavano il Mediterraneo) e di cui l’album “Es contra ta pèl” (2012) è già convincente, e mediaticamente apprezzata, testimonianza. Per raccontare il loro quarto lavoro “Tant Que Vira…”, prodotto dalla cooperativa artistica solidale Sirventés, partiamo da “Sèm Totis Bastards”, dall’implacabile accelerazione ritmica finale: asserzione forte e chiara della grande miscela nella quale da sempre viviamo, nonostante le becere illogicità di purezza identitaria che ancora impazzano. Possiamo partire da qui, dall’idioma locale cui fanno da contraltare percussioni e corde orientali per presentare Laurent Cavalié (voce, fisarmonica, bendir), Clément Chauvet (voce, grancassa, pandeiro, tamburello), Jocelyn Papon (voce, grancassa, cuatro), Abdel Bousbiba (canto, violino orientale, tar, oud), Titouan Billon (voce, balai malgascio, tammorra, triangolo). 
Ma già “Laman, fisança”, apertura del disco dal titolo e dal canto occitano-arabo, è dichiarazione d’intenti, con le linee vocali maghrebine che si combinano al ritmo popolare del sud francese. “Canterì quand èri”, è una critica in foggia folk-rap-ragga rivolta agli agenti immobiliari che imperversano nei paesini della Languedoc. Un bella linea di fisarmonica e voci potenti in “Qual es que ten?”, tributo ad un amico italiano che strizza l’occhio alla tarantella. La sequenza successiva si apre ad inflessioni iberiche, prima con la disapprovazione dell’individualismo supponente di “Soi Ieu”, poi con l’adattamento del celebre canto repubblicano della guerra civile di Spagna “Ai! Carmela”, che diventa un omaggio alle nonne di origine spagnola che abitano i villaggi dell’area da cui provengono i Du Bartàs. La storia pluricentenaria dell’economia vinicola territoriale e dell’impatto capitalista sulla produzione locale è riassunta nei cinque minuti per voci e percussioni di “Mon vesin”, dove si fondono ancora polifonia in occitano e melopee e melismi arabi portati da Bousbiba, musicista di Narbonne, originario di Fés e di cultura berbera. Un attacco di violino, subito accoppiato a percussioni e voci ci porta a “Crèbi de set”, una bourrée in tre tempi. “Fadòli de patròli” racconta un’altra storia locale degli anni ’50 del Novecento: le folli speranze di ricchezza di un proprietario di bar che insegue sogni d’oro nero sulla Montanha Negra. “La fièra de Lonzac”, su musica tradizionale, è una divertente lezione su come fare affari con i turisti inglesi al mercato di Olonzac. Ancora ironia in “Galinas”, dove due polli si fanno metafora delle gerarchie sociali. C’è spazio per la rilettura del noto canto anarchico toscano dalle insolite linee sud-mediterranee “Sante Caserio”, dedicato al giovane attentatore del presidente francese Sadi Carnot. Il tradizionale “Vòs de maridar?”, che è una non richiesta di matrimonio, chiude quest’opera dalla vitalità prorompente: un’Occitania non rinchiusa su se stessa, che reinventa la tradizione. 


Ciro De Rosa
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